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Preti «digitali», tempo di creatività

GUIDO

MOCELLIN

I limiti imposti dalla pandemia hanno spinto l’impegno dei sacerdoti attivi sui social verso nuovi linguaggi. Con l’accento sulla spiritualità

Si sa che per ciò che riguarda il digitale, e segnatamente la Rete, le cose procedono molto – e talora troppo – in fretta. Oggi tanti di noi faticano a immaginare la propria vita quotidiana senza uno smartphone in tasca: relazioni personali e di lavoro, informazioni, servizi, intratte-nimento... tutto passa da lì. E spesso anche la vita spirituale. Solo quattro anni fa, proprio su questa pagina, potevamo arrischiarci a classificare in tre tipologie i modi della presenza in Rete dei sacerdoti, a seconda che lo spazio occupato nell’ambiente digitale fosse inteso come una stanza privata; come lo studio o la sacrestia, dove le conversazioni sono più libere perché più riservate; o come i luoghi in cui abitualmente il prete incontra la comunità (l’oratorio, l’aula di catechismo, la sala della comunità, il campo estivo e naturalmente il tempio, o perlomeno la cappella). Oggi è chiaramente quest’ultima tipologia a mostrare la maggiore vitalità e a meritare di essere raccontata: quella in cui i ministri di Dio si mettono sui social con l’intento di annunciare il Vangelo, testimoniarlo e continuare o ampliare l’azione pastorale.

L’ultimo anno, il “tempo della pandemia”, ha reso l’accelerazione ancora più veloce. Ho descritto questo fenomeno nel mio contributo «La clausura e l’uscita. Fede, Chiesa e Rete durante la pandemia» al volume Pandemie mediali. Narrazioni, socializzazioni e contaminazioni del mediavirus (a cura di V.De Luca e M.Spalletta, Aracne 2020). Al netto dello spazio occupato dai post puramente informativi e di servizio e da quelli fortemente polemici rispetto ai condizionamenti imposti dalla situazione alla vita liturgica e pastorale, i preti si sono segnalati per l’impegno ad accompagnare i cristiani in questa emergenza. Così, attraverso la Rete, non solo le Messe ma anche tante altre opportunità di nutrimento spirituale sono state offerte ugualmente a chi, per le restrizioni in atto, non vi avrebbe potuto partecipare, insieme alla riflessione sulla situazione e alla solidarietà ai più provati. La parola che meglio definisce questo impegno è “creatività”: in una situazione critica, nella quale però era anche maggiore lo spazio lasciato all’invenzione, il clero (e i religiosi e i laici) hanno saputo esplorare le possibilità offerte dalla Rete con un’intensità imprevista e impensabile in condizioni normali.

Certamente esercitare tale creatività significa anche, per i sacerdoti che intraprendono questo percorso, porsi un problema di linguaggio. Ma in questo senso il moltiplicarsi delle piattaforme attraverso le quali partecipare alle reti sociali (quelle che ormai chiamiamo sbrigativamente “i social”) hanno agevolato il compito. Se dunque “in principio” erano i blog, e qualche anno dopo si è trattato di scegliere solo tra Facebook e Twitter, con una chiara preferenza per il primo a motivo della fatica a rinchiudere certe comunicazioni in 140 caratteri, oggi vediamo sia una grande diversificazione delle presenze sia un’apprezzabile disponibilità nel cimentarsi con gli strumenti più innovativi. Mi pare che il canale YouTube – purché non ci si limiti a parlare nei video come si parlerebbe dietro a una scrivania o attorno a un tavolo – goda di una certa preferenza: se ben sceneggiati e ben montati, pochi minuti sono sufficienti a dire diverse cose e a farle intendere. E poi i video girano facilmente anche su Facebook, che rimane comunque, tra i social, una specie di boa se ci si rivolge a un’utenza adulta. Per le altre reti sociali siamo ancora agli esperimenti, tanto più apprezzabili quanto più ci si avventura in ambienti nei quali si fatica, a prima vista, persino a comprendere come comunicare, figurarsi cosa. In tutti i casi l’atteggiamento che paga, in termini di rapporto tra impegno e risultato, è quello – mi perdoni l’autore della Lettera a Diogneto – di abitare nei social ma non essere dei social, in particolare non considerando i like e in genere i consensi o le visualizzazioni come metro dell’impegno, ma scegliendo, come ripete spesso il collega Gigio Rancilio, il profilo più umile ma più evangelico di “seminatori digitali”.

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