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Cop27, sui fossili al palo le promesse di Glasgow

ANDREA

DI TURI

Manca un mese alla Cop27 di novembre in Egitto. Significa che è trascorso quasi un anno da quando, alla Cop26 di Glasgow di novembre 2021, una quarantina di Paesi – Italia compresa – e istituzioni finanziarie internazionali si erano impegnati a porre fine entro il 2022 ai finanziamenti pubblici per progetti fossili all’estero. Un impegno da 28 miliardi di dollari, cifra che i firmatari del Glasgow Statement destinano ogni anno a progetti fossili e potrebbero invece indirizzare alla transizione verso l’energia pulita, com’è scritto del resto nello Statement. Un impegno che chiama in causa direttamente le agenzie di credito all’esportazione (in Italia la Sace, di recente tornata nelle mani del ministero dell’Economia), senza le cui garanzie quei progetti fossili non vedrebbero la luce. Che ne è stato di quegli impegni? C’è chi li ha onorati. Ad esempio Danimarca, Belgio, Regno Unito, Svezia, la Bei (Banca europea degli investimenti). Di recente la Francia, che ha ratificato gli impegni presi a Glasgow in una politica che impedisce (seppure con delle eccezioni, criticate dagli ambientalisti) che Bpifrance, la banca pubblica d’investimenti, sostenga all’estero progetti di esplorazione, produzione, trasporto, stoccaggio, raffinazione, distribuzione di petrolio e gas.

Purtroppo chi ha fatto i compiti a casa è una minoranza, la maggioranza è in colpevole ritardo. Proprio per fare pressione sui ritardatari, ma anche sui Paesi che ancora non hanno aderito allo Statement, oggi organizzazioni internazionali della società civile, con capofila gli americani di Oil Change International, promuovono una Giornata internazionale di mobilitazione (iniziative sono previste ad esempio in Belgio, Canada, Ghana, Giappone, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti). Nel mirino ci sono in particolare quattro Paesi: Stati Uniti, Canada, Germania e Italia, cioè Sace.

Nel maggio 2021, mesi prima del Glasgow Statement, Sace ha introdotto una politica sui cambiamenti climatici: «Però sul sito Web non c’è, se ne parla solo nella Dichiarazione non finanziaria», dicono gli analisti di ReCommon, Ong italiana che con Sace ha un dialogo aperto «ma intermittente – sottolineano –, a volte non rispondono». E che ha seguito da vicino tutta la vicenda (a giugno ha contribuito a un report di IISD-International Institute for Sustainable Development che faceva il punto sull’attuazone del Glasgow Statement). Per quel che si sa, quindi, si tratta di impegni limitati, senza tempistiche precise: «Manca una strategia per l’abbandono dei combustibili fossili», sottolinea ReCommon. E comunque in termini di trasparenza siamo ad anni luce di distanza ad esempio dall’Olanda, che ha lanciato addirittura una consultazione pubblica sugli impegni derivanti dal Glasgow Statement per la export credit agency nazionale, Atradius. Mentre ReCommon ha dovuto attendere una sentenza del Tar del Lazio, storica (non ci si può trincerare dietro la confidenzialità commerciale, ha detto il Tar), per avere accesso a documenti amministrativi di Sace legati a valutazioni di progetti sul gas naturale in Mozambico che coinvolgono Eni e Saipem.

Oltre alla poca trasparenza, il punto è che la storia recente di Sace è una storia di protagonismo nell’oil&gas. Nel triennio 2018-2020, l’Italia si è piazzata al terzo posto nel mondo, dietro Canada e Usa, nel finanziamento a petrolio e gas. Fra 2016 e 2021, Sace ha fornito garanzie al settore oil & gas per 13,7 miliardi di euro. L’anno scorso, invece, Sace ha smesso di sostenere il contestatissimo oleodotto Eacop (East African Crude Oil Pipeline) dopo una tenace campagna a livello internazionale («StopEacop ») e nazionale. Che ha avuto il supporto anche dei Fridays for Future (che per la mobilitazione di oggi organizzano delle iniziative in località italiane) e del Movimento Laudato Si’, che da anni spinge le istituzioni cattoliche di mezzo mondo a disinvestire dalle fossili. È andata un po’ diversamente per la valutazione del finanziamento di Arctic Lng-2, mega- progetto di liquefazione di gas nell’Artico russo, che Sace ha sospeso, non cancellato, in conseguenza dell’invasione russa in Ucraina. Se la pressione della società civile non dovesse essere sufficiente, potrebbe arrivare il contenzioso, la climate litigation: «Una volta ratificati con una policy – spiega Re-Common –, gli impegni del Glasgow Statement diventano vincolanti». Per contestare il loro eventuale mancato rispetto, dunque, ci si potrebbe rivolgere ai tribunali amministrativi. Stando al rapporto sulle climate litigation nel mondo, curato ogni anno dal Grantham Research Institute sul Climate Change della London School of Economics, è quello che è successo negli ultimi dodici mesi in Corea del Sud e Regno Unito. Dove, sullo sfondo degli obblighi derivanti dall’Accordo di Parigi, alle credit export agency è stato contestato proprio il coinvolgimento in progetti fossili.

Manca un mese alla Cop27. È già tardi, ma il tempo per ratificare il Glasgow Statement ancora c’è.

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