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COME UN FRUTTO DELL’INFINITO

MATTEO

LIUT

Acutis, Frassati e la vita senza misura

C’è una lezione preziosa nelle storie di Carlo Acutis e di Pier Giorgio Frassati, i due giovani che oggi la Chiesa iscriverà nell’elenco dei santi. Le loro vicende non sono solo dei “bei racconti” da cui ricavare edificanti messaggi per vivere da buoni cristiani, ma ci pongono davanti a una domanda asciutta quanto drammatica, che riguarda tutti: qual è la misura per considerare un percorso esistenziale compiuto? Sulla base di quale metro si può pensare di “aver vissuto abbastanza e bene”? La risposta non è così scontata, nemmeno per i credenti, ai quali non può bastare l’affermazione che ogni vita è degna, anche quella più “quantitativamente” piccola o breve. Questa, seppur vera, agli occhi del mondo potrebbe apparire come una consolazione un po’ sbrigativa. E l’umanità chiede ai cristiani ragioni più fondate della loro speranza, soprattutto oggi davanti alle troppe esistenze innocenti (e giovani) spezzate dalle armi e dall’odio. Carlo e Pier Giorgio ci accompagnano sul crinale impervio di questa questione, partendo dalla contraddizione di cui loro stessi sono portatori e indicando una strada ai giovani come loro, ma dal sapore universale.

continua a pagina 17

Matteo Liut

Dalla prima pagina

A pparentemente, infatti, la morte giovane è la negazione di Dio. Davanti a vite interrotte ben prima della meta cronologica considerata “soddisfacente” nel comune sentire, la reazione, umanissima e impossibile da giudicare, è quella della rabbia: dov’è il Signore che tutto sa e tutto ha creato in quel momento di dolore e di ingiustizia? Il silenzio assordante attorno allo spegnersi di un’esistenza con ancora un carico enorme di umanità da dare e da ricevere ferisce il cuore, annichilisce l’anima, alimenta moti di ribellione contro il destino e contro chi lo governa. E questo è ancora più forte davanti a persone luminose come Acutis e Frassati. Chissà quanto bene, viene da pensare, avrebbero potuto ancora offrire questi due ragazzi se fossero diventati anziani, spegnendosi in modo naturale dopo un’esistenza lunga, bella e pervasa di bene. Cos’è, quindi, la fede cristiana? È, forse, esaltazione della morte, del sacrificio, della sofferenza? Davvero il Vangelo ci dice che la cifra inscritta nel dna dell’umano esistere è qualcosa di incompiuto, sofferente, ferito? In realtà è esattamente l’opposto: il Risorto ci parla di un Dio che non è morte ma che sperimenta la morte e la vince. E questo non è affatto un risultato accomodante o consolatorio, non cancella la sofferenza, non elimina dall’orizzonte gli ostacoli e gli incidenti, ma è l’origine di un mandato di responsabilità, perché spetta a noi scegliere come vivere e come usare la nostra umanità con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. Solo così la morte non avrà l’ultima parola, solo così non sarà il modo in cui la nostra vita si spegne (soprattutto se troppo presto) a dare risposte su che senso abbia avuto.

I santi come Acutis e Frassati hanno fatto la loro scelta. Non serve ora ricordare tutte le vie percorse da questi giovani, perché le loro vite sono state raccontate a sufficienza in questi mesi, ma di sicuro loro hanno deciso di non attendere che sia qualcun altro o qualcos’altro a definire il loro senso. Sono stati protagonisti perché hanno guardato alla loro stessa esistenza come un bene da custodire e da mettere a frutto. Hanno realizzato, insomma, esattamente quello che ieri mattina papa Leone XIV ha esortato a fare nella sua meditazione all’udienza giubilare: «Scavare nella terra, rompere la crosta dura del mondo».

E questo per i giovani è un potente messaggio liberatorio: il senso della vita non sta in una misura, in una quantità, nell’eccellenza di un risultato, ma nella voglia stessa di vivere l’esistenza come un frutto dell’infinito. Allo stesso tempo ricorda agli adulti che ciò che conta non è il “quanto”, il successo in termini di obiettivi raggiunti, sia nella propria vita che in quella delle nuove generazioni. Solo così saremo tutti in grado di trovare il senso in ogni singolo gesto quotidiano, e non saranno né il fine né la fine a dettare legge su chi siamo, perché rinunciando alla misura come criterio di giudizio si lascia spazio a ciò che misura non può avere: l’amore.

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