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Plasmata dalla Parola e dalla storia: solo una “Chiesa che apprende” è viva

SALVATORE

ABAGNALE

L’apprendimento ecclesiale? Una questione spirituale e pastorale, non solo intellettuale. Un atto di conversione. Che riguarda l’intera comunità credente. Un intervento di don Abagnale nella scia del dibattito sulla “teologia rapida”

Una Chiesa che apprende: tra fedeltà e rinnovamento

L’immagine di una Chiesa che apprende potrebbe sembrare, a prima vista, inusuale o persino provocatoria. Non è forse la Chiesa depositaria della rivelazione divina? Non è fondata su una verità immutabile? Eppure, la Sacra Scrittura ci mostra che persino il Figlio di Dio ha attraversato un processo di apprendimento: « Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia sostenere con la parola chi è stanco » ( Is 50,4). E ancora: « Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» ( Eb 5,8). Se Cristo stesso ha appreso dalla vita e dalla storia, come può la Chiesa, suo Corpo, sottrarsi a questa dinamica? Se smette di imparare, la Chiesa si chiude in sé stessa, rischiando di diventare autoreferenziale e incapace di dialogare con il mondo. Quando questo accade, gli scambi al suo interno si trasfor-mano in monologhi sterili, i dibattiti diventano dialoghi fra sordi, e la missione si spegne. L’apprendimento ecclesiale, però, non è solo una questione intellettuale, ma una questione spirituale e pastorale. È un atto di conversione che implica apertura alla realtà, ascolto della storia e capacità di discernere i segni dei tempi. È un cammino che coinvolge l’intera comunità credente, chiamata a rimanere fedele alla propria identità senza smettere di interrogarsi e rinnovarsi.

Apprendere per convertirsi: una sfida pastorale

Nel suo libro Urgenze pastorali, Christoph Theobald individua nella crisi della Chiesa contemporanea una sfida fondamentale: quella di apprendere e convertirsi. Il Concilio Vaticano II ha operato un decentramento ecclesiale, orientando la Chiesa non solo verso la società, ma anche verso il Vangelo e Cristo stesso. Ciò significa che la Chiesa non può più considerare la propria sopravvivenza come il valore supremo, ma deve porsi in una posizione di ascolto, disponibilità e servizio. La domanda che emerge con forza è: la Chiesa prende sul serio questo decentramento? È disposta a imparare dal mondo e dalla storia, lasciandosi interpellare dalle sfide contemporanee, oppure si rinchiude nella difesa delle proprie strutture e del proprio status quo? Imparare significa anche riconoscere che il Vangelo non è un semplice codice dottrinale, ma una realtà viva che si incarna nelle diverse epoche e culture. La teologia moderna e contemporanea ha insistito su questo punto: il cattolicesimo europeo, oggi in crisi di credibilità, non può limitarsi a ripetere formule del passato, ma deve riscoprire la propria sorgente, reinterpretandola in un contesto nuovo. Questa operazione non è un tradimento della fede, bensì un ritorno alle radici, un disincagliare la tradizione da rigidità che la soffocano, affinché possa tornare a sgorgare con freschezza e autenticità.

Tradizione e innovazione: un equilibrio dinamico

Una Chiesa che apprende non può non confrontarsi con la questione della tradizione. Ma che cos’è, in realtà, la tradizione? Il teologo Gisel sottolinea che la tradizione non è una semplice conservazione del passato, ma un processo dinamico che permette di costruire la storia umana. Attraverso di essa, la memoria si trasmette e si rinnova, mantenendo vivo il senso dell’identità cristiana. Separare la tradizione dal contesto storico significa ridurla a un deposito inerte, a un insieme di regole senza vita. Ma al tempo stesso, una tradizione malata e autoreferenziale può diventare un ostacolo all’apprendimento, impedendo alla Chiesa di crescere e di rispondere alle sfide del presente. Giuseppe Guglielmi, nel suo libro Produzione dell’origine, invita a una «decostruzione rispettosa» della tradizione. Questo non significa demolire il passato, ma piuttosto tradurlo con fedeltà nel nostro tempo. Karl Barth ammoniva a non strumentalizzare la tradizione per i propri scopi: essa va trattata con rispetto, senza manipolazioni o rigidità ideologiche. Il vero compito della Chiesa è dunque quello di distinguere tra una tradizione viva e una tradizione morta. La prima è generativa, capace di adattarsi senza perdere la propria essenza; la seconda è sterile, chiusa nella difesa di forme che non parlano più alla coscienza contemporanea. Una Chiesa che apprende è una Chiesa che sa rinnovare la propria tradizione senza rinnegarla, che sa attingere alle sue radici per dare frutti nuovi.

L’identità della Chiesa nell’apprendimento

Essere una Chiesa che apprende non significa relativizzare la fede o perdere la propria identità, ma riconoscere che l’identità stessa della Chiesa sta nella sua continua conversione e nel suo costante apprendimento di ciò che lo Spirito dice nel tempo. La Chiesa è un corpo vivo, guidato dal Signore Risorto, che non si chiude in se stesso ma si lascia plasmare dalla Parola e dalla storia. Se smettesse di apprendere, smetterebbe di essere fedele alla propria missione, perché il Vangelo è una realtà dinamica, capace di rinnovarsi senza perdere la propria essenza. L’apprendimento, dunque, non è un aspetto secondario, ma il cuore stesso della sua identità: la Chiesa è discepola del Maestro, e come tale è chiamata a rimanere in ascolto. Non si tratta di una debolezza, ma della condizione necessaria affinché la fede sia sempre viva, capace di illuminare ogni tempo e ogni cultura.

Annunciare il Vangelo «con tutta franchezza e senza impedimento»

L’ultimo versetto degli Atti degli Apostoli ci offre un’immagine potente di cosa significhi essere una Chiesa che apprende: Paolo annunziava il regno di Dio e insegnava le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo «con tutta franchezza e senza impedimento» ( At 28,31). Questa è la postura della Chiesa che apprende: una comunità che non ha paura di confrontarsi con il mondo, che non si chiude nella paura o nella nostalgia, ma che parla con franchezza ( parresia), senza pregiudizi né barriere. Ma perché la Chiesa possa annunciare il Vangelo con libertà, deve prima lasciarsi istruire da esso. Deve imparare dalla storia, dall’umanità, dalle gioie e dalle sofferenze delle persone. Deve essere capace di ascoltare, di discernere, di lasciarsi interrogare. Solo così il suo annuncio potrà essere credibile, incisivo e capace di suscitare nuova vita.

Conclusione: una Chiesa in cammino

L’apprendimento è una sfida, perché richiede umiltà, coraggio e disponibilità al cambiamento. Ma è anche una straordinaria opportunità: solo una Chiesa capace di apprendere potrà essere una Chiesa viva, capace di rispondere con autenticità alla chiamata del Vangelo e alle esigenze del mondo contemporaneo. Come ha detto papa Francesco, «la tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». La Chiesa che apprende è una Chiesa che sa custodire il fuoco della fede, lasciandolo ardere in forme sempre nuove, perché il Vangelo continui a illuminare le generazioni di oggi e di domani.

Vicario episcopale per la Pastorale arcidiocesi di Sorrento Castellammare di Stabia

© RIPRODUZIONE RISERVATA «Il Vangelo non è un semplice codice dottrinale, ma una realtà viva che si incarna nelle diverse epoche e culture. La Chiesa è discepola del Maestro: come tale è chiamata a rimanere in ascolto. Se smette di imparare, smette di essere fedele alla propria missione»

Carl Heinrich Bloch (Copenaghen, 1834-1890), “Il discorso della Montagna”

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