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In 70 a due chilometri dal Libano: il kibbutz di Sasa resiste ai razzi

Oltre la collina ci sono le postazioni di Hezbollah Le esplosioni scandiscono le ore mentre lavorano fianco a fianco con gli arabi dei villaggi intorno «Qui conviviamo in pace da decenni Islamici e cristiani studiano con i nostri figli»

Inviata a Sasa ( Nord di Israele)

Nessuna auto percorre la strada numero 86. Sulla corsia deserta che conduce al Nord di Israele e alla frontiera con il Libano, l’orizzonte è una distesa di chilometri e chilometri di terra senza case né esseri umani. Tanta, tanta, tantissima terra, da un lato e dall’altro. Sempre troppo poca, però, per due popoli affamati di esistenza. Poi, d’un tratto, a ridosso dell’altopiano del Golan, sul ciglio sinistro dell’asfalto, spunta una fila di vetture. Parcheggiate ordinatamente una dietro l’altra, queste macchine senza conducente, in processione immobile, sono il simbolo dell’esodo. Trentacinquemila persone, nelle ultime due settimane, hanno lasciato una cinquantina di comunità lungo quel confine che il conflitto ha trasformato nel “secondo fronte”. Il campo di battaglia è una striscia lunga 79 chilometri che separa la milizia libanese Hezbollah dalle postazioni delle forze armate israeliane o Tzahal, dall’acronimo. I tiri incrociati si susseguono con monotona puntualità, fortunatamente a intensità medio-bassa. Certo, il fuoco ha fatto già trenta vittime – 24 esponenti di Hezbollah, 5 militari e un civile israeliani – dal 7 ottobre. Lo scontro, però, è rimasto latente. Finora. Basta un incidente perché la miccia prenda fuoco e l’incendio si propaghi a ritmo incontrollato. L’esercito dello Stato ebraico, dunque, ha esortato gli abitanti a evacuare: sulla strada numero 86 sono stati allestiti punti di raccolta per portarli al sicuro. Gli sfollati hanno lasciato là le proprie auto e sono saliti sui pullman militari diretti verso il centro e il sud. Non tutti, però, sono partiti.

Al kibbutz Sasa, che in italiano significa “spiga di grano”, l’ordine ufficiale è arrivato domenica. «Ma non è stato tassativo. Oltretutto noi ci eravamo già “autoevacuati” tra il mercoledì e il giovedì precedente. Abbiamo fatto andare via i bambini, gli anziani, i malati. Su circa 500 ne sono restati settanta: quelli indispensabili per portare avanti il raccolto e garantire le attività essenziali come il presidio medico, la distribuzione di acqua, luce, gas». Luciano Hassin, nato a Milano, residente a Sasa dal 1976, è uno di loro: ha appena terminato la giornata di raccolta di mele e kiwi. Sugli alberi ce ne sono 2.500 tonnellate, la fonte di reddito principale per Sasa, dove ancora la proprietà è comune e «ciascuno dà secondo le proprie possibilità e riceve in base alle sue necessità», secondo il vecchio principio socialista che ha ispirato la nascita dei kibbutz nel secondo dopoguerra. La gran parte, negli ultimi decenni, si è arresa all’economia di mercato: sul totale di 273, una quarantina è rimasta fedele al comunitarismo originario. Dal 7 ottobre, un gruppo di soldati presidia l’entrata di Sasa, altri soldati sono all’interno. Il kibbutz è in posizione strategica. Il Libano e Hezbollah sono ai piedi della collina dell’Alta Galilea dove è arroccato. Il tonfo sordo delle esplosioni, da una parte all’altra, scandisce le ore. «Non c’è da preoccuparsi, stavolta hanno sparato i nostri. Quando sono i miliziani, si attiva l’allarme», afferma, senza badarci troppo, Luciano. Eppure sabato un razzo ha colpito Bar’am, un chilometro e mezzo più a vanti, a cinquecento metri dalla frontiera libanese. Da allora, la comunità è rimasta vuota, fatta eccezione per le truppe che, a bordo dei carri armati, sbarrano l’accesso. «Quotidianità di emergenza», la chiamano da queste parti. Gli israeliani ci fanno i conti da 75 anni. A Sasa, però, non vogliono abituarsi. Il kibbutz è circondato da villaggi dove vivono arabi islamici, arabi cristiani, circassi, drusi. Come Jush Alav e Fasouda da cui viene buona parte degli stagionali nel periodo del raccolto. Anche ora ce ne sono diversi nel frutteto. «Senza di loro non potremmo farcela », aggiunge Luciano. Mancano, invece, gli studenti del liceo: oltre trecento, sul totale di quattrocento, arrivano dall’esterno. L’istituto è chiuso, come il resto delle scuole, il teatro, perfino il bar. «Siamo ancora sotto choc per quanto accaduto nel sud. Mi sveglio ogni notte con gli incubi. Per noi è incomprensibile. Qui abbiamo sempre convissuto in amicizia. I nostri figli sono compagni di studi dei ragazzi dei villaggi intorno. Lavoro da tutta la vita per e con i palestinesi e so bene che sono altro rispetto ad Hamas». Angelica Calò Livné è arrivata a Sasa da Roma nel 1975. «Un anno prima di Luciano. Facevamo parte dello stesso movimento – Hashomer Hatzair – che promuoveva la filosofia del kibbutz tra i giovani. Avevamo un sogno, volevamo creare comunità giuste e pacifiche. Non isolate, però, ma in armonia con le altre. Non a caso i kibbutz sono il bacino dei movimenti israeliani per il dialogo e la difesa dei diritti dei palestinesi. Questo rende ancora più assurdo il massacro di Hamas. Aveva ragione la mia vicina araba. Mi ha detto: “Se venissero qui ucciderebbero anche me. Credi che gli importi che sono islamica?». Ventritrè anni fa, nel pieno della seconda Intifada, Angelica, docente all’università della Galilea, ha fondato, con la palestinese cristiana Samar Sakhar, “Beresheet Lashalom”, letteralmente “l’inizio della pace”. L’organizzazione la promuove attraverso il teatro.

L’impegno le è valso, nel 2005, la candidatura al Nobel per la Pace, insieme a Samar. «Mi chiama ogni giorno dal 7 ottobre, vuole sapere come sto. Nemmeno lei ha parole per commentare quello che ha fatto Hamas». Neanche Luciano e Angelica, attivisti anti- Netanyahu – come buona parte dell’opinione pubblica israeliana – hanno dubbi sull’offensiva senza precedenti con cui Israele sta colpendo Gaza dal 7 ottobre. «Possiamo e dobbiamo convivere con i palestinese – conclude Angelica –. Ma non con i terroristi. Il mio cuore è lacerato da quanto accade nella Striscia. Ma cos’altro possiamo fare?».

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Militari israeliani all’ingresso del kibbutz Sasa, a due chilometri dal confine libanese, che è stato abbandonato quasi totalmente dagli abitanti nei giorni scorsi/ Ansa

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