Il tramonto del «regime di cristianità» apre a una Chiesa al servizio di tutti
ANTONIO
SPADARO
È come un film, o almeno vediamolo così, montando alcune sequenze. Quattro. 13 marzo 2013: dalla loggia delle benedizioni di San Pietro si affaccia un papa vestito di bianco e solo bianco, senza la mozzetta rossa, che è il simbolo dell’eredità imperiale sul papato. 2 maggio 2025: da Instagram si affaccia l’imperatore Donald rivestito degli abiti bianchi dell’autorità papale. 11 aprile 2019: il papa all’improvviso si inginocchia davanti ai leader Sud sudanesi venuti in Vaticano per cercare una pace, e bacia le loro scarpe, mentre dice loro «permettetemi… ». 20 aprile 2025: il papa saluta il vice imperatore, che congeda con in mano tre ovetti Kinder per i suoi figli. Sono le sequenze di un film assurdo che forse qualcuno prima o poi girerà, ma adesso le immagini ballano nella nostra memoria e si fondono con le sequenze lente girate il 6 maggio 2016 in Vaticano. Quel giorno tutti i leader europei si sono recati al soglio di Pietro per consegnare a Francesco il Karlpreis, cioè il Premio internazionale Carlo Magno, un riconoscimento conferito annualmente dalla città tedesca di Aquisgrana nel giorno dell’Ascensione. La sala vaticana che fu scelta è la «Regia» eretta su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, destinata a ricevere i sovrani in visita ufficiale, e dunque dal preciso valore politico. Posso testimoniare l’elettricità della sala quel giorno. Nel suo discorso Francesco ha citato L’idea di Europa, opera del gesuita Erich Przywara (1889-1972). Pochi sanno che questo pensatore dal nome impronunciabile è stato uno dei pilastri del pensiero politico di Bergoglio. Dobbiamo accogliere la sfida di «pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli», evitando «quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale », aveva detto Bergoglio citandolo. Sono parole che andrebbero scolpite su pietra.
Citando L’idea di Europa, Francesco rivela la sua convinzione, che era quella di Przywara, appunto: siamo alla fine dell’epoca costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno. La «cristianità », cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo. L’Europa è nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum imperium, che ha le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. Questo processo è per Francesco la possibilità per la Chiesa di riprendere i cammini evangelici avviati da Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux, rompendo la barriera che la separava dai poveri ai quali il cristianesimo è sempre apparso come l’ideologia e la garanzia politica dei ceti dominanti. La fine del regime di «cristianità » non significa affatto il tramonto dell’Occidente, ma piuttosto porta in sé una risorsa teologica decisiva proprio in quanto la missione di Carlo Magno è alla fine. Cade il muro che quasi fino al giorno d’oggi ha impedito al Vangelo di raggiungere gli strati più profondi della coscienza, di penetrare fino al centro dell’anima. Era questa pure la convinzione di Friedrich Heer, grande storico austriaco studioso del Sacro Romano Impero.
Francesco rifiuta così radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla terra, che era stata alla base proprio del Sacro Romano Impero, e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione odierna del «partito». Se così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un intricato intreccio di dimensioni religiose, istituzionali e politiche che gli farebbero perdere la consapevolezza del suo servizio universale e lo contrapporrebbero a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè il «nemico». La Chiesa rigetta, dunque, qualsiasi «imperatore» che si erga a defensor fidei: «Non permettiamo che il sacro venga strumentalizzato da ciò che è profano. Il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità», aveva tuonato Francesco in Kazakistan (cioè a due passi dal confine russo).
Francesco ha lucidamente confermato questa sua visione citando lo stesso Przywara pochi giorni dopo aver ricevuto il premio, il 9 maggio, in una intervista al quotidiano francese La Croix. Interrogato sul perché egli parli di «identità europea» e non usi mai l’espressione «radici cristiane dell’Europa», il pontefice rispose: « Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Sappiamo bene che The Donald è un “producer in chief” – definizione di Susan B. Glasser sul New Yorker – e ama lo show. Ma la sua operazione d’immagine, di raffinata intelligenza artificiale – tanto raffinata da apparire pacchiana –, voleva essere una bomba atomica sul significato del cristianesimo nel contesto politico.
Con Przywara, Bergoglio riconosceva – proprio come è affermato nella Lettera agli Ebrei (13,13) – che i cristiani devono «uscire fuori dall’accampamento per portare l’oltraggio di Cristo ». Per questo la Chiesa deve essere in uscita e non essere mai un’entità chiusa ed escludente. No, non era uno slogan da ripetere a pappagallo in tutte le sessioni ecclesiali, ma una visione molto precisa dei rapporti tra chiesa e mondo. Si tratta di seguire Cristo fuori delle mura della città santa, dove egli muore come un maledetto per poter raccogliere l’umanità intera, anche quella che si crede maledetta e abbandonata da Dio (cfr Gal 3,13).
Nasce proprio qui l’idea della Chiesa come «ospedale da campo», che alla consegna del Karlpreis, è stata evocata anche dal discorso dell’allora presidente del Consiglio europeo, Tusk. E difatti Francesco proseguì nel suo discorso affermando che «alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa». Come? Annunciando il Vangelo, che «si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante». La sua opzione è stata sostanzialmente non quella di portare la gente in Chiesa, ma di portare la Chiesa e il suo Vangelo alla gente, a todos todos todos. Un’opzione apostolica, paolina, non esclusivamente pastorale, tantomeno orientata a «restituire la Chiesa ai cattolici», insomma.
Ecco il significato dell’immagine sconvolgente e spudorato del bacio solenne delle scarpe dei leader sud sudanesi, responsabili di una guerra fratricida che avevano appena firmato un accordo di pace. Ed ecco anche il significato pop degli ovetti Kinder al vice dell’imperatore. Sono forse queste le immagini che i cardinali chiusi in Conclave potranno avere nei loro sogni o nei loro incubi. Ma, in realtà, un vero film da vedere c’è già con una illuminante scena del Conclave, appunto: quello con Anthony Quinn e Vittorio De Sica, diretto da Michael Anderson e tratto dal romanzo Le scarpe del pescatore di Morris West, un romanzo che il ventottenne professor Bergoglio faceva leggere a tutti i suoi alunni di Lettere del Collegio gesuita di Santa Fe.
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Nel ricevere il Premio internazionale Carlo Magno, il Pontefice ha citato il gesuita Przywara, che invitava a «pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli». Un’idea lontanissima dalle immagini caricaturali di Trump

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