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Il segreto di una vocazione felice? «Integrare sessualità e maturità»

LUCIANO

MOIA

Nella prefazione al libro “Vocazioni felici” papa Francesco auspica che tutti i membri del clero possano essere testimoni di un amore «che include, che perdona, che non delude, che non segue le mode del tempo»

Ma sacerdoti, religiosi e religiose, dopo l’ordinazione o la consacrazione vivono sentimenti, sessualità e relazioni in modo diverso rispetto agli altri esseri umani? Il fatto di vivere una vocazione di speciale consacrazione induce preti e suore a modificare la propria umanità? No, risponde nel libro Vocazioni felici. Integrare orientamento sessuale, affetti e relazioni (San Paolo), la psicologa e psicoterapeuta Chiara D’Urbano, consultrice del Dicastero per il clero. Vivere la propria vocazione in modo autentico, significa integrare il mondo dei sentimenti e degli affetti, al di là dell’orientamento eteroaffettivo e omo-affettivo. «Non è l’orientamento sessuale la questione centrale per la riuscita della vocazione, ma l’integrazione». E al centro rimane sempre la persona – non il ruolo che è chiamata a rivestire – di fronte alla quale, sottolinea nella postfazione don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale delle vocazioni, «è indispensabile liberare la mente e il cuore, da ogni tentazione di giudizio»

Nella prefazione al suo libro, papa Francesco scrive tra l’altro che il “mondo ha bisogno di sentir parlare di Dio, di incontrare e riconoscere i testimoni di un amore che include, che perdona, che non delude, che non segue le mode del tempo. L’amore per sempre e per tutti, tutti, tutti”. Quasi un amore “superiore” e fuori dal tempo. Non le sembra che la pretesa di considerare l’amore di un prete o di una consacrata sempre inclusivo, oblativo, “aperto al mondo” ma non “del mondo” finisca per mettere in secondo piano la loro umanità?

Chi ama includendo sempre, perdonando sempre, non deludendo mai e non cambiando stile, per un credente, è solo Uno. Sacerdoti, consacrate e consacrati sono testimoni di questo Amore, secondo la loro specifica vocazione, come le coppie e le famiglie lo sono nella vocazione che le caratterizza. L’aspetto fondamentale è proprio questo: essere testimoni non significa considerare preti, religiose e religiosi con dei poteri “speciali”, con una struttura umana diversa da quella dei comuni mortali, come se vivessero emozioni e sentimenti in un modo angelico, a differenza del resto dell’umanità. Papa Francesco lo dice chiaramente: persone integrate possono essere preti, consacrate e consacrati che sanno riconoscere e benedire il cuore, centro unificatore e propulsore di tutto. Che bello e quanto è vero.

Alla radice di tante situazioni problematiche c’è da parte di preti, di consacrate e consacrati la sensazione della solitudine, come attestato da varie ricerche, con situazioni in cui si verifica troppo spesso di vivere “senza trovare un confratello o una consorella con cui confidarsi”. Tutto questo non ci suggerisce che l’intero sistema delle relazioni intra-ecclesiali sia da rivedere, anche dal punto di vista organizzativo?

Direi proprio di sì. Certo l’argomento delle relazioni non va “ipersemplificato”, nel senso che la Chiesa è inserita in un processo storico, sociale e antropologico, e la solitudine è qualcosa che appartiene al nostro tempo, quanto mai complesso e articolato, carico di bisogno di rapporti, e insieme di fatica nel costruirli e mantenerli. Un paradosso. Questo solo per contestualizzare l’argomento, non per minimizzare la sofferenza, la diffidenza, il senso di non essere “di nessuno” che preti, consacrate e consacrati spesso riportano nei propri vissuti. Come mai un sacerdote non sente dalla sua parte i confratelli, anzi si difende dal farsi conoscere? Come mai una consacrata o un consacrato ritiene di sentirsi al sicuro piuttosto fuori, che dentro la comunità? Mi pare che le relazioni paritarie siano state la cenerentola della formazione. Hanno prevalso il sospetto, il guardare come pericoloso il volersi bene tra giovani in cammino, e poi tra adulti, mentre senza fiducia e amicizia veramente affettuosa, senza gesti di vicinanza all’interno della propria realtà di vita non si sopravvive. Il processo di revisione, tuttavia, è già in atto, questo è certo.

Il problema dell’affettività diventa ancora più complesso nel caso di orientamenti omoaffettivi. Ma un sacerdote, un religioso, una religiosa omo-affettivi, può realizzare la propria vocazione senza rinunciare al proprio orientamento e senza “ammettere le proprie colpe”?

Non lo chiamerei “problema dell’affettività”, ma potenzialità, risorsa, motore di vita. Uno dei doni più belli che abbiamo ricevuto: la possibilità e la capacità di amare. E questo appartiene alla persona umana, indipendentemente dall’orientamento sessuale, che è una declinazione del modo di voler bene. Perché una donna o un uomo con orientamento omoaffettivo non potrebbero realizzare la propria vocazione religiosa o sacerdotale? Non ci sono colpe, l’orientamento omosessuale è un dono non un deficit. La vera differenza è data dall’integrazione di tutto ciò che appartiene al cuore. Se la persona, nella strada di vita che ha scelto, ha espanso le proprie potenzialità, ha realizzato la versione migliore di lei, secondo lo specifico della sua chiamata particolare, potrà essere una persona felice. Ci saranno sacrifici e tensioni sì, ma nulla che sia sentito come intollerabile, se è nel posto giusto. “Mi sento a casa”, si dovrebbe arrivare a dire.

Una delle religiose intervistate nel libro auspica “una revisione in profondità delle categorie antropologiche e della formazione affettiva e sessuale con cui si affronta il cammino di crescita umano e spirituale delle persone che si affacciano alla vita consacrata”. A che punto è questa revisione? È stata davvero avviata?

Anche qui dico decisamente di sì. La revisione inizia dal poterne parlare e dal darsi lo spazio per dialogare su questi aspetti, senza mistificare la realtà. Nei seminari, nelle comunità religiose, nelle diocesi il processo è avviato, sebbene non in modo uniforme e con lo stesso ritmo. Di fatto, il riconoscimento che le scienze umane possano dare un grande contributo nella formazione sacerdotale e di vita consacrata, e lo spazio che oggi viene riservato ai percorsi psicologici, sono il segno tangibile che c’è un’aria nuova di rinnovamento, che non può essere fermata.

Come mai ha deciso di inserire in appendice la lettera di 50 sacerdoti omoaffettivi preparata in occasione del cammino sinodale? Cosa aggiunge questo testo alla riflessione che lei propone?

Intanto è un testo bellissimo, quasi una poesia che nasce, come spesso accade, da un vissuto molto sofferto, ed è un testo autentico, non costruito ad arte. Rappresenta la voce di soli 50 sacerdoti, ma possono riconoscersi in quelle righe molti, molti di più. Sono uomini che esprimono il bisogno di non essere associati in modo semplicistico e generalizzato – e purtroppo ancora oggi accade – al “disordine nella vita di certi preti omosessuali”. Perché l’eterosessualità “non è garanzia certa di vita sessuale ordinata nel celibato”, e l’omosessualità può essere una “ricchezza affettiva” specifica nella Chiesa. La lettera, che ho apprezzato fin dalla sua uscita, non è propagandistica, anzi, con un tono sommesso e accorato esprime quello che è, poi, il cuore di Vocazioni felici: la maturazione della vita affettiva e sessuale fa di ogni vocazione, etero ed omosessuale, una vocazione interiormente libera e serenamente realizzata.

© RIPRODUZIONE RISERVATA La psicoterapeuta Chiara D’Urbano, consultrice della Congregazione per il clero: l’equilibrio tra orientamento sessuale e relazioni è fondamentale anche per l’impegno ecclesiale di sacerdoti e consacrati e consacrate

«È indispensabile liberare la mente e il cuore da ogni tentazione di giudizio», così scrive don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni, sulla questione dell’affettività, nella postfazione del libro di Chiara D’Urbano

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