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«Medici che sanno donare salute»

ENRICO

NEGROTTI

Le questioni delle liste d’attesa, delle troppe disuguaglianze nelle cure, della carenza di vocazioni mediche. E su tutto la missione di prendersi cura di tutti, senza recedere dal dovere di non procurare mai la morte di chi soffre

La cura, la medicina, la sanità: le idee del chirurgo Stefano Ojetti, nuovo presidente Amci, l’associazione che riunisce i camici bianchi cattolici

«Il medico cattolico è un medico con una “C” in più, fatta di cura e di compassione. Liste d’attesa, diseguaglianza nelle cure e rapporto medico-paziente sono i principali nodi che affliggono la nostra sanità ». Da poco più di un mese Stefano Ojetti è presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci). Dopo la specializzazione in Chirurgia generale all’Università La Sapienza di Roma e in Chirurgia toracica all’Università di Chieti, mantenendo sempre rapporti di collaborazione con l’ateneo romano, ha lavorato per molti anni nell’ospedale di Ascoli Piceno: «Ero in prima linea, alle prese con la chirurgia d’urgenza, la chirurgia generale, addominale e toracica: oltre 3mila interventi». Nella sua esperienza professionale, c’è anche il ruolo di consigliere dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Ascoli Piceno: «Ho svolto due mandati, interrotti bruscamente nel 2007 dalle dimissioni per il caso Welby». Quella vicenda, “capostipite” di una possibile deriva eutanasica, fu dirompente agli occhi di molti, tra cui Ojetti: «Nel nostro Ordine provinciale si discuteva talvolta di sanzionare i medici per avere esposto una targa del proprio studio professionale di dimensioni non conformi, e l’Ordine di Cremona ritenne di non dover obiettare alcuna censura su quanto accaduto nel caso Welby. Mi sembrò una contraddizione e rimasi indignato ». La sua decisione («seguendo l’impulso della coscienza») fu ripresa e apprezzata anche sulle pagine dell’Osservatore Romano.

Quali sono i problemi principali che affliggono la sanità nel nostro Paese?

Almeno tre: liste d’attesa, diseguaglianza delle cure, rapporto medico-paziente. Il dibattito sulle liste d’attesa non è – come si vuol far credere – problema degli ultimi tempi, ma va avanti da almeno un ventennio. Il nostro Sistema sanitario nazionale (Ssn), descritto come il migliore d’Europa, può essere definito molto spesso come “virtuale” perché se la richiesta di una prestazione sanitaria viene garantita dopo sei mesi lo stato di salute, in questo lasso di tempo, non può che peggiorare. Per averla in tempi ragionevoli pertanto bisogna spesso rivolgersi al privato, ma non tutti sono economicamente in grado di farlo: già oggi, infatti, 5 milioni di persone rinunciano alle cure. In questo ambito, non ritengo eticamente accettabile che una stessa struttura che dà un appuntamento a sei mesi, o più, poi privatamente la assicuri in duetre giorni utilizzando gli stessi sanitari e la stessa strumentazione.

Come si possono ridurre le liste d’attesa?

Occorre affrontare almeno due aspetti che determinano questa condizione. Il primo è la medicina difensiva: è dimostrato, infatti, che il 30% circa degli esami richiesti è inutile, e che vengono effettuati per la necessità dei medici di tutelarsi in un contenzioso legale davanti a un giudice, avendo fatto tutto ciò che era scientificamente possibile. Occorre pertanto innanzitutto depenalizzare “realmente” l’atto medico, riducendo il rischio di contenziosi legali penali che condizionano i sanitari nell’esercizio della professione. Il secondo aspetto è che, in alcuni casi, vi sono carenze nella medicina del territorio, con i medici di base oberati dalla burocrazia e che, pur non volendo, sottraggono tempo alla visita dei pazienti. Quindi spesso i cittadini si rivolgono ai Pronto soccorso anche per patologie minori, intasandoli. Credo che il Ssn dovrebbe fornire ai medici di medicina generale, consorziati in gruppi di 5-6 professionisti, le apparecchiature necessarie per poter eseguire ecografie, elettrocardiogrammi e esami ematochimici di base, alleggerendo in tal modo almeno del 30% gli accessi ai Pronto soccorso.

Gli altri due nodi che ha indicato?

La diseguaglianza delle cure è figlia del fatto che i Livelli essenziali di assistenza (Lea) non sono in realtà rispettati in tutte le Regioni. Esiste purtroppo una medicina all’avanguardia in alcune (perlopiù al nord) e un’altra “meno efficiente” in altre aree. Lo dimostra il fatto che esistono ancora i cosiddetti viaggi della speranza. È una situazione che va riequilibrata, anche se ovviamente esisteranno sempre – e per fortuna – alcuni centri di eccellenza da sostenere e incentivare. Tutto dipenderà dalle Regioni che dovranno uniformarsi a essere virtuose, e mi auguro che i nuovi decreti risolvano almeno in parte il problema.

Perché il rapporto medico-paziente è diventato così difficoltoso?

Negli ultimi trent’anni è stata superata la medicina paternalistica, basata su una tacita alleanza tra il medico e il paziente che si basava come assunto che, nel “miglior interesse del ma-lato”, i valori e le idee del paziente coincidevano con quelli del medico. Si è passati poi a una “collaborazione” tra medico e paziente attraverso il consenso informato. Ma allo stato attuale si è andati oltre, nel senso che il paziente (o il “dottor Google”) detta e richiede quello che desidera che il medico faccia. Se il malato sceglie di morire, il medico deve fare un atto eutanasico; al contrario, se vuole guarire a ogni costo (anche quando non è possibile) e muore, si rischiano quegli episodi odiosi, troppo frequenti, in cui i parenti picchiano il personale sanitario.

Questo insieme di problemi incide sulla carenza di “vocazioni” a fare il medico?

Certamente sì. Il primo disincentivo alla professione è il rischio reale di contenziosi legali. Non tutti gli ospedali infatti assicurano adeguatamente i medici: e per alcune specialità (chirurgo, ortopedico, ginecologo) fare un’assicurazione privata può oggi costare fino a 10mila euro l’anno. Un altro freno è rappresentato dai turni di lavoro molto intensi, figli di una situazione di carenza di personale, causati da criteri miopi adottati in passato che non hanno previsto tale evenienza. L’ultimo deterrente, è il fatto di essere sottopagati rispetto ai medici europei.

Qual è il ruolo dei medici Amci?

La missione dell’Amci è provvedere alle necessità dei sofferenti, degli emarginati, e quindi di intervenire soprattutto nel campo delle fragilità. Basta pensare alle ragazze madri, che spesso per necessità economiche finiscono per abortire, oppure ai disabili fisici e intellettivi, ai malati terminali, agli anziani. Gran parte degli emarginati sono immigrati: a tale proposito, in molte parti d’Italia l’Amci ha ambulatori con medici volontari che prestano la loro opera in collaborazione con la Caritas.

Quanto pesano i temi etici nel lavoro di un medico cattolico?

Fare il medico non significa solamente fare una diagnosi o prescrivere una terapia: occorre cercare di farsi carico dell’altro, di trasferire la propria scienza e agire con coscienza “dandogli la speranza”, migliorando la sua condizione di sofferenza. Il medico cattolico, secondo quanto ci ricorda sempre il nostro assistente spirituale, il cardinale Edoardo Menichelli, è un medico che, oltre a essere medico, ha anche la “C” in più di cattolico. Tra i valori irrinunciabili della professione medica c’è quello di donare salute e non di procurare la morte, così come scritto nel giuramento di Ippocrate. Secondo questo principio, assume valore etico anche la promozione della prevenzione delle malattie attraverso un corretto stile di vita, così come incentivare la natalità nel rispetto di una procreazione responsabile e contrastare l’ideologia gender. Noi medici cattolici dobbiamo saper essere testimoni e informare correttamente le persone promuovendo l’amore per la vita, seguendo il monito di san Giovanni Paolo II: « Non abbiate paura».

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Stefano Ojetti, nuovo presidente della Associazione medici cattolici italiani (Amci)

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