La salute arriva nel cuore dell’Africa insieme alla cooperazione italiana
FRANCESCO M.
TALÒ
Sulle tracce della “rivoluzione” portata dai missionari e consolidata nel tempo dall’impegno di società civile e istituzioni tricolori
Medici, infermiere, referenti dei villaggi: il personale che presidia la sanità in Uganda è ormai in larga parte locale, frutto maturo dell’azione del Cuamm e del nostro Paese
Don Dante Carraro e io lasciamo il traffico di Kampala, la capitale dell’Uganda, e dopo quasi otto ore raggiungiamo la Karamoja, regione settentrionale ai confini del Kenya. Il paesaggio è ancora punteggiato dalla presenza umana: baracche, capanne, persone che percorrono decine di chilometri a piedi, ma diminuisce la densità di popolazione e aumentano le mucche, anche al centro della carreggiata. La strada in Karamoja è nuova, sostituisce quella in terra battuta. Questa regione particolarmente povera era in passato problematica per l’ordine pubblico ed era davvero molto remota. La nuova strada è stata costruita – è fin troppo ovvio – grazie al governo di Pechino. La presenza cinese nelle infrastrutture è pervasiva, ma fuori dalla capitale si vedono pochi cinesi. Quando si tratta di cooperazione europei ed americani rimangono protagonisti. I veri protagonisti però sono gli africani. Il volto della speranza dell’Uganda nella sua cooperazione con l’Italia è quello di Peter Lochoro. La sua è una storia di successo, determinazione e cooperazione. Figlio di un pastore della Karamoja, vedeva i medici – allora quasi tutti bianchi – dell’ospedale aperto dalla Chiesa cattolica nel suo villaggio di Matany. Il sogno di diventare uno di loro si è realizzato grazie a una borsa di studio procuratagli dal Cuamm-Medici con l’Africa, l’organizzazione basata a Padova e diretta da don Dante. Adesso è Peter che rappresenta il Cuamm in Uganda, gestisce progetti che nel 2023 hanno superato i 5 milioni di euro e 108 persone. Di queste solo 6 sono italiani. Anche questo è un successo del lavoro “con”. Dal 1958, quando il Cuamm ha iniziato a operare in Uganda, il rapporto si è invertito. All’inizio il lavoro era quasi solo portato avanti dai cooperanti italiani, adesso gli ugandesi hanno preso le redini e gestiscono i progetti, il segno di un lavoro fatto insieme e non imposto, cioè subito dagli africani. A Matany l’ospedale è della diocesi ed è diretto con efficacia teutonica da fratel Günther, un comboniano tedesco. È una sorta di villaggio quasi autosufficiente, esteso in uno spazio di ben 20 ettari. I segni di presenza italiana nel corso dei decenni sono tanti: da Carlo Alberto Bonini, chirurgo di fama che col pensionamento decise con la moglie di vivere qui, ai medici milanesi che sostengono le attività dell’ospedale seguendo le orme di Gigi e Mirella Rho, che erano qui nel 1971 quando venne inaugurato, alla Provincia Autonoma di Bolzano e, naturalmente, la cooperazione allo sviluppo italiana col Cuamm, che qui ha una lunga storia. In questo come negli altri ospedali che ho visitato ( la precedete puntata di questo viaggio è stata pubblicata il 30 agosto, ndr) c’è un’atmosfera certamente africana con intere famiglie quasi accampate nei grandi spazi aperti (e non mancano le galline) ma – strano a dirsi – in un contesto di ordine, pulizia e tranquillità.
D on Dante sottolinea l’importanza della formazione. Anche qui in linea con l’approccio del Piano Mattei: lavorare con gli africani per affrancarli dal bisogno dell’assistenza. Visitiamo la scuola per infermieri e ostetriche gestita dalle suore Comboniane all’interno dell’ospedale. L’impressione è di grande compostezza con allievi in uniforme fieri del loro impegno. Ormai ostetriche ugandesi vanno in Sud Sudan a formare ragazze del Paese confinante, un’altra storia di successo, favorita dalla cooperazione italiana, ma realizzata dalla disciplinata responsabilità assunta dagli ugandesi. Andiamo poi a Moroto, uno dei centri principali della Karamoja. L’ospedale è statale, ma il direttore esprime gratitudine per il sostegno italiano. Spiega che le sfide più preoccupanti rimangono le malattie infettive: malaria, tubercolosi e in misura minore Aids, ma la situazione sta migliorando. O vunque le priorità del Cuamm sono mamme e neonati, e si riscontrano successi. Importante la “catena del sangue”, a partire dalla raccolta, che avviene nel piazzale sterrato del mercato del villaggio con uno spettacolo per attirare la gente. Una folla di bambini ammira eccitata i danzatori, e diversi genitori si lasciano convincere e donare. A Moroto vediamo poi la banca del sangue che salva le donne dalle emorragie, una delle cause maggiori dei decessi materni successivi ai parti. Visitiamo i reparti per i prematuri a Matany e Moroto. Molte attrezzature sono state donate dall’Italia e recentemente a Moroto è sopravvissuto un neonato di 600 grammi. A l tramonto ci incontriamo con il personale del Cuamm nel distretto, ci sediamo in cerchio all’aperto e ognuno racconta con orgoglio le sue attività. Dormiamo nella foresteria dell’ospedale di Matany. È l’occasione per una chiacchierata con le due specializzande italiane, che stanno avendo qui un’esperienza di vita e professionale. Martina lavorerà come chirurga all’Ospedale delle Molinette a Torino, Laura come ginecologa a Padova. Sono stanche ma entusiaste, hanno accumulato una quantità di esperienze professionali che in Italia difficilmente si acquisiscono in pochi mesi, sono state messe alla prova e si sono sentite utili. Sono pronte per i loro incarichi in Italia con la certezza di rimanere nostalgiche di questa opportunità offerta loro dal Cuamm.
A Soroti mi lascia don Dante, va in Etiopia per un importante progetto nella tormentata regione del Tigrè. Sono preso in carico da Giovanni Dall’Oglio, che mi porta ad Aber, in un’altra regione dell’Uganda settentrionale. L’incontro con Giovanni è sorprendente: ci ritroviamo per la prima volta da oltre 50 anni, dopo una comune esperienza scout da ragazzi. Viene chiamato “Dr. Solutions”: quando una questione è urgente non aspetta la risposta dalla burocrazia, la trova lui in modo creativo, anche mettendo mano alle sue tasche. È un medico romano, quinto di otto figli, uno dei quali è padre Paolo Dall’Oglio, che scelse la Siria per la sua missione e lì venne rapito nel 2013 senza tornare. Giovanni da circa vent’anni ha fatto dell’Uganda la sua seconda patria. Vive e lavora nel grande ospedale diocesano dedicato a Giovanni XXIII e dove si ricorda l’opera davvero eroica in questa regione del beato Giuseppe Ambrosoli (sì, la famiglia delle caramelle al miele).
G iovanni Dall’Oglio rimane il ragazzo entusiasta dei miei ricordi, vuole farmi vedere tutto, l’Africa vera, il mercato, i traghettatori che portano le persone con i loro animali, biciclette e moto da una parte all’altra del grande fiume Nilo. Soprattutto, mi spiega che lavorare con gli africani per la loro salute vuol dire uscire dagli ospedali. Bisogna sporcarsi le scarpe. Camminiamo in un sentiero nei campi tra le capre e raggiungiamo le case rotonde, costruite col fango e col tetto di paglia. Lì vive Jeoffrey che interrompe la sua cena e, attorniato dalla numerosa famiglia con bambini che sbucano da ogni parte, mi illustra con orgoglio il suo lavoro nel Village Health Team. Non è un medico ma sta nel fondamentale primo livello di assistenza ed educazione sanitaria. Jeoffrey spiega agli abitanti del villaggio come prevenire la malaria, che qui è la prima causa di morte, tiene le statistiche sulla situazione medica delle famiglie, spinge le donne a recarsi in ospedale per partorire (in troppe ancora perdono la vita perché lo fanno a casa). T utto si lega: la salute di donne e bambini riguarda anche un programma contro la violenza di genere che colpisce tante adolescenti. La nostra cooperazione allo sviluppo con il Cuamm e Banca Intesa Sanpaolo è impegnata ad aiutare queste donne e i loro figli. Un lavoro di squadra tra varie anime di una cooperazione “con”, che mi viene illustrata da Benedict, animatore di un’organizzazione della società civile locale chiamata “African Network 4 Change”. Per cambiare è necessaria cooperazione e non assistenza, per questo Benedict è grato agli interlocutori italiani del governo, del settore privato e della società civile con cui si sente protagonista di una trasformazione educativa che previene le malattie e promuove lo sviluppo. Non chiede carità, non servono immagini che suscitino il pietismo: si può cambiare perché c’è speranza.
Ambasciatore a riposo
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Nella regione del Karamoja l’ospedale diocesano di Matany e quello statale di Moroto sono il segno di un’azione efficace. E oggi qui arrivano specializzandi da Torino e Padova
La festa in un villaggio visitato nel viaggio con il Cuamm in Uganda Qui accanto, da sinistra, Francesco Talò, don Dante Carraro e due rappresentanti locali