Vaticano II, la via di Francesco Novità nel solco della Tradizione
STEFANIA
FALASCA
«Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti, il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior, per dirla secondo quel processo espresso nella fisica aristotelica ». Con queste affermazioni, nell’intervista che mi aveva rilasciato per « Avvenire » il 18 novembre 2016, al ritorno del viaggio apostolico in Svezia per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma luterana, papa Francesco delineava con molta chiarezza la prospettiva del suo ministero petrino e ricordava – sgombrando il campo da confusioni – che per sua natura la Chiesa non è proprietà del Papa e che dunque non è il Papa a fare la Chiesa: « Non sono io». Dichiarava così di andare avanti nel solco della Tradizione e di seguire la Chiesa. Una prospettiva che non era una novità.
« Per rimanere fedeli bisogna uscire. San Vincenzo di Lérins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo: «Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate». Era il 13 maggio 2007 ad Aparecida, in Brasile, dove eravamo arrivati con il volo papale di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Sotto i portici del grande Santuario mariano incontrai il cardinale Jorge Mario Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, che avevo conosciuto cinque anni prima a Roma, quando venne ospite presso la nostra famiglia. Gli chiesi del suo incontro con Benedetto XVI e delle prospettive di quell’assise. Mi fece quest’accenno a Vincenzo di Lerins, santo del V secolo della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, e all’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, dicendomi che ne avremmo riparlato quando sarebbe venuto a Roma. […] Francesco ha fatto così progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio Vaticano II nel solco della Tradizione. Quelle della risalita alle fonti del Vangelo, di una rinnovata missionarietà, della sinodalità e povertà nella Chiesa, del dialogo con la contemporaneità, della ricerca dell’unità con i fratelli cristiani, del dialogo interreligioso in favore della ricerca della pace, che sono il lascito del Vaticano II e hanno distinto gli anni del pontificato.
Quelle che papa Francesco aveva espresso in modo programmatico già la sera stessa dell’elezione, il 13 marzo 2013, nel primo saluto, nella prima preghiera e nella prima benedizione dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro. […] In quelle che sembravano parole estemporanee pronunciate da Francesco la sera dell’elezione, poi articolate nel primo discorso al Corpo diplomatico del 22 marzo 2013, c’era già esposta la visione intera di un pontificato, sgorgando dalla fonte della fede e dall’aver fatto proprio il Concilio Vaticano II nella sua interezza come ressourcement, «risalita alle sorgenti ». Incipit che sulla «linea che il Concilio ha insegnato» è comprensivo della natura e della missione della Chiesa alla luce della Lumen gentium, nel solco della Tradizione. A papa Francesco, è stato osservato, le speculazioni sul Concilio non sono interessate granché, così come ha sempre ignorato quanti hanno scambiato le «tradizioni» di una generazione fa con la grande Tradizione, a cui non solo il grande teologo conciliare Yves Congar riservava la maiuscola e della quale il Concilio è frutto e sviluppo nella comprensione del Vangelo: « Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dal Vangelo». L’affermazione pronunciata da Francesco fin dal primo anno del suo pontificato aveva reciso da sola tutta una stagione di riduzione dell’evento conciliare a frasario per disattenderne le istanze profonde e decisive. Per il primo Papa a essere stato ordinato prete dopo il Concilio, esso è tale per essere vissuto nel suo insieme. E se dal saluto iniziale del pontificato di papa Francesco si intravedeva già il cammino poi percorso lungo le strade maestre indicate dal Concilio, quelle prime parole fanno anche comprendere come non sia il Papa a fare la Chiesa: «Si tratta solo di essere docili allo Spirito Santo, di lasciar fare a Lui» ha affermato nell’intervista per « Avvenire ». «Con la Lumen gentium la Chiesa è risalita alle sorgenti della sua natura, il Vangelo. La Chiesa è il Vangelo, è l’opera di Gesù Cristo. Non è un cammino di idee, uno strumento per affermarle».
« Nella Chiesa le cose entrano nel tempo quando il tempo è maturo quando si offre. Così lo Spirito porta avanti i processi nella Chiesa, fino al compimento [...]. Solo Cristo con l’azione dello Spirito può muovere la Chiesa e farla andare avanti»: rileva dunque anche quanto sia improprio guardare al Successore di Pietro «separato dal corpo della Chiesa, che è di Cristo», come papa Francesco ha ribadito ancora nella medesima intervista: « Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica. Questo cammino è il cammino della Chiesa. Io seguo la Chiesa».
E cosa ha significato per papa Francesco seguire la Chiesa? Seguire il cammino della Chiesa nel solco della Tradizione che dal Concilio va avanti?
–Ha significato riprendere tout court e portare avanti il lascito del Vaticano II che «è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea », nella certezza che «la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi, che è stata propria del Concilio, è assolutamente irreversibile».
– Ha significato riscoprire la natura costitutiva della Chiesa, la «medicina della misericordia », e richiamare a una conversione missionaria di tutto il popolo di Dio nella sinodalità e nel servizio ai poveri, secondo le strade maestre alle quali era risalito il Concilio, indicate come prospettiva per crescere nella fedeltà.
– Ha significato percorrere la via su cui la Chiesa è chiamata a camminare: il dialogo. Percorrere quindi una prospettiva ecclesiale ed ecclesiologica, perché quando si dice dialogo, nella Chiesa, si dice colloquium salutis, ovvero la fedeltà a Cristo nell’Ecclesiam suam, come descritto nell’enciclica di Paolo VI, che indica « per quali vie la Chiesa debba oggi adempire al suo mandato».
– Ha significato portare avanti il dovere dell’ecumenismo: « Da quando è stato promulgato il decreto conciliare Unitatis redintegratio, più di cinquant’anni fa, e si è riscoperta la fratellanza cristiana basata sull’unico battesimo e sulla stessa fede in Cristo, il cammino sulla strada della ricerca dell’unità è andato avanti a piccoli e grandi passi e ha dato i suoi frutti. Continuo a seguire questi passi».
– Ha significato riprendere e proseguire nella prospettiva della Nostra aetate, la «dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane », firmata da Paolo VI e da tutti i Padri conciliari il 28 ottobre del 1965: « Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di pro- muovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino». E portare avanti la «fraternità universale» descritta nella Nostra aetate: « Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. L’at-teggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio”».
– Ha significato quindi portare avanti alla lettera il dialogo con le altre religioni e considerarle al servizio della fraternità universale per la pace nel mondo. È con questa visione che, nell’incontro del 4 febbraio 2019, papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar Ahamad al- Tayyeb hanno siglato ad Abu Dhabi il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune: « Dio è il Creatore di tutto e di tutti, per cui siamo membri di un’unica famiglia e, come tali, dobbiamo riconoscerci» aveva affermato ricordando che è «questo il criterio fondamentale che la fede ci offre per passare dalla mera tolleranza alla convivenza fraterna».
– Ha significato agire incessantemente per la ricerca della pace sul modello di Cristo. « La intendiamo dalla voce di Gesù risorto: è la parola “pace”. Essa è primariamente un dono di Dio: è Lui che ci lascia la sua pace (cfr. Gv 14,27); ma nello stesso tempo è una nostra responsabilità: “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). Lavorare per la pace. [...] Alla vigilia di Natale del 1944, Pio XII pronunciò un celebre Radiomessaggio ai popoli del mondo intero. La seconda guerra mondiale stava avvicinandosi alla conclusione dopo oltre cinque anni di conflitto e l’umanità – disse il Pontefice – avvertiva “una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un’era novella per il rinnovamento profondo”. Ottant’anni dopo, la spinta a quel “rinnovamento profondo” sembra essersi esaurita e il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito “terza guerra mondiale a pezzi” in un vero e proprio conflitto globale».
– Ha significato infine adempiere al mandato di Pietro: farsi ponte. Pontifex (da pons, “ponte”, e tema di facere, “fare”), termine che fu presto usato per indicare i vescovi, e in particolare il Vescovo di Roma. Nell’udienza concessa nella Sala Regia del Palazzo Apostolico al corpo diplomatico presso la Santa Sede il 22 marzo 2013, Francesco aveva anticipato: «Uno dei titoli del Vescovo di Roma è Pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini».
Fin dall’inizio, dunque, papa Francesco aveva prospettato gli archi che avrebbe proiettato e percorso come costruttore di ponti, svelando la missione alla quale Dio lo ha chiamato in questi tempi convulsi, lacerati e ottenebrati dalla «terza guerra mondiale a pezzi», per edificare l’unica famiglia umana, facendosi ponte come Cristo, Principe della pace.
Papa Francesco quale figlio del Concilio Vaticano II – che, come ha affermato, è stato «una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea » –, a partire dalla Lumen gentium e dalla Gaudium et spes, ha così fatto proprie quelle che ne sono le finalità. «Sono la linea che il Concilio ha insegnato» e che da Pontefice ha percorso. Nella sequela Christi, seguendo la Chiesa. È questo il cammino che rimane. Ciò che nel tempo resta e dal quale non si torna indietro. Non è la Chiesa di Francesco. È l’eredità nella quale la Chiesa è chiamata a camminare.
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«Il Concilio è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dal Vangelo» Alla luce di quell’evento il pontificato di Bergoglio ha seguito alcune indicazioni chiare: rileggere la Parola, i poveri, la missionarietà, il dialogo tra le fedi

La prima Messa celebrata nella Cappella Sistina da papa Francesco dopo la sua elezione in Conclave / Ansa
