L’attualità dell’agnello di Assisi che divenne un Leone
La decisione del nuovo Papa è stata accostata giustamente ai predecessori del V e del XIX secolo Ma c’è pure il frate amico di Francesco, che tiene insieme parola e ascolto
ANTONIO MUSARRA
Dominus benedicat frater Leo, te. Così si conclude una delle testimonianze più intime e toccanti lasciateci da Francesco d’Assisi. Scritta di suo pugno per il compagno più vicino, quella formula – semplice, antichissima, profondamente umana – racchiude un intero mondo di fraternità, silenziosa premura e legame spirituale.
Frate Leone fu il confidente più caro di Francesco, l’unico a condividerne l’intimità spirituale sul monte della Verna, durante l’esperienza delle stimmate. Il santo lo chiamava “agnello di Dio”, per la sua mitezza, la pazienza, la fedeltà senza riserve. Originario, con ogni probabilità, di Assisi o delle sue vicinanze, entrò presto tra i primi seguaci del Poverello, distinguendosi non per eloquenza o cariche, ma per la dedizione silenziosa, la discrezione, l’umiltà. Non fu tra i predicatori celebri, né tra i fondatori dell’Ordine: fu il custode del cuore di Francesco, il destinatario delle sue confidenze più profonde. Due autografi straordinari, ancora oggi conservati, ci restituiscono la traccia concreta di questo vincolo spirituale. Il primo è la chartula, custodita nella cappella delle reliquie della basilica di San Francesco ad Assisi: un foglietto scritto subito dopo la stigmatizzazione, nel settembre del 1224. Da un lato vi sono le Lodi di Dio Altissimo, dall’altro la Benedizione a frate Leone, con il celebre saluto conclusivo. Il secondo autografo è un piccolo rettangolo di pergamena, esposto, oggi, nella cattedrale di Spoleto. Francesco risponde a Leone, che attraversava un momento di turbamento e desiderava tornare a consultarlo su un punto delicato della vita religiosa: «In qualunque maniera ti sembra meglio di piacere al Signore Dio e di seguire le sue orme e la sua povertà, fatelo con la benedizione del Signore Dio e con la mia obbedienza». Sebbene si fossero da poco parlati, Leone cercava ancora un chiarimento, forse anche a nome di altri frati. Francesco lo invita a non lasciarsi turbare e a seguire ciò che ritiene meglio.
Il passaggio dalla seconda persona singolare alla plurale – “fatelo” – rivela che la questione riguardava l’intera comunità.
Il tono non è normativo, ma tenero, fraterno, profondamente umano: un invito alla coscienza, non all’obbedienza cieca.
Leone conservò entrambi i biglietti come reliquie interiori, non per mostrarli, ma per custodirli nel silenzio affettuoso della memoria. Nessun altro frate ricevette un segno così personale.
Quei due frammenti, scritti con mano incerta ma cuore pieno, sono, oggi, tra le testimonianze più pure del francescanesimo delle origini.
Con l’elezione di Leone XIV, quel nome torna ora sulla scena della Chiesa universale. Un nome solenne, carico di storia e suggestioni. Si è subito pensato a due grandi pontefici: Leone I Magno, il Papa del V secolo che difese con forza la dottrina dell’incarnazione e, secondo la tradizione, fermò Attila alle porte di Roma; e Leone XIII, autore della Rerum Novarum, il primo Pontefice a dedicare un’enciclica sistematica e innovativa ai temi del lavoro, della giustizia sociale e della dignità umana.
Si tratta di richiami sicuramente corretti. Anzi, Leone XIII fu profondamente legato agli agostiniani del suo paese natale, Carpineto Romano, dove promosse la ristrutturazione del convento di Sant’Agostino, trasformandolo in luogo di accoglienza e carità. Il suo rapporto con la spiritualità agostiniana – fatta di interiorità, tensione alla verità e impegno culturale – fu reale e coerente con la visione del suo pontificato. Per non parlare, poi, della condanna dell’americanismo, e, cioè, di quella corrente cattolica nata negli Stati Uniti che, nel tentativo di conciliare cattolicesimo e spirito moderno, esaltava l’iniziativa individuale, la libertà di coscienza e l’adattamento pastorale ai valori democratici, arrivando a mettere in discussione l’autorità ecclesiastica, la vita religiosa e la tradizione dottrinale. Eppure, accanto a queste figure monumentali, si può scorgere anche un’eco più sommessa, ma non meno eloquente: quella di frate Leone. Non un Papa, non un teologo, ma un testimone silenzioso. Se Francesco – e con lui, il pontificato da cui ci siamo congedati – ha rappresentato la radicalità evangelica, il gesto che sovverte, la parola che interroga, Leone è colui che resta, che raccoglie, che custodisce. E, forse, è proprio questo che Leone XIV ha inteso evocare: una continuità meno visibile, ma altrettanto profonda; quella del discepolo, non del fondatore; di chi ricorda, non di chi impone.
Il nuovo Papa è americano. È missionario e agostiniano. Porta con sé un’esperienza di Chiesa maturata lontano dai centri del potere ecclesiale, in contesti di frontiera, dove si ascolta prima ancora di parlare. L’Ordine cui appartiene affonda le sue radici nello stesso secolo di Francesco, il XIII, quando papa Alessandro IV, raccogliendo l’eredità di Innocenzo IV, unificò diversi gruppi eremitici sotto la Regola di sant’Agostino, strutturando in forma mendicante una realtà già diffusa di comunità eremitiche. Privo di un fondatore singolo, ma ricco di memoria condivisa e spessore spirituale, l’Ordine degli agostiniani ha da sempre coniugato studio e fraternità, silenzio e pensiero. Il loro carisma si nutre della convinzione che la verità non s’impone ma si cerca insieme, nella comunità, dove l’interiorità personale si apre all’ascolto dell’altro e si fa servizio ecclesiale, secondo un ideale di vita condivisa in cui l’amore fraterno è via alla conoscenza di Dio.
La scelta del nome Leone assume, così, un triplice volto: la forza dottrinale di Leone Magno, la lucidità sociale di Leone XIII, e la discrezione fraterna di frate Leone. Non è solo un nome che rievoca potere, ma un nome che tiene insieme parola e ascolto, autorità e prossimità, pensiero e cura. Un Papa custode di voci antiche e ferite contemporanee. Un uomo che porta con sé la quiete dei chiostri agostiniani e il passo lungo delle missioni. Che parla con misura, ma ascolta in profondità.
Un Papa che benedice, come Francesco benedisse Leone, con una mano tremante e un cuore saldo. In questa triangolazione simbolica si delinea il progetto di questo pontificato: una Chiesa che non tace, ma parla con misura; che non rinuncia al pensiero, ma lo accompagna con lo stile della cura; che sa ancora benedire, anche in mezzo al disincanto. Forse, da oggi, quella benedizione non riguarda più solo un compagno del Poverello, ma si estende – sommessa, eppure solenne – all’intera Chiesa. Dominus benedicat frater Leo, te.
© RIPRODUZIONE RISERVATA