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Un Laboratorio per l’industria di pace «Investire in armi non crea ricchezza»

LUCA

LIVERANI

La usa da sempre chi giustifica come inevitabile la corsa alle spese militari, ritornata a ritmi da Guerra fredda. È la locuzione latina «Si vis pacem, para bellum» , se vuoi la pace, prepara la guerra. Da decenni, però, i fatti sembrano dimostrare che preparare la guerra serve solo a fare la guerra. Limitandoci all’area euromediterranea e mediorientale, il XX secolo si è chiuso con la guerra in Iraq e il XXI si è aperto con quelle in Afghanistan, Libia, Siria. Fino all’Ucraina e Israele. È la III Guerra Mondiale a pezzi, come l’ha definito Papa Francesco. Prova evidente, tranne per chi non vuol vederlo, che è tempo di esplorare strade diverse dalle scelte di politica estera pesantemente influenzate da un’economia armata. Scelte che generano morte, devastazione e odio per generazioni. Oltre ad altissimi profitti per il settore dell’industria bellica. «Se vuoi la pace prepara una politica industriale di pace», ribadiscono quindi da tempo i settori più avvertiti del mondo pacifista.

È quello su cui stanno lavorando da più di un anno realtà diverse della società civile e della cultura, in un Laboratorio permanente sulla politica industriale di pace in Italia. Un obiettivo ambizioso che vede lavorare assieme docenti del Politecnico di Torino, attivi nel Centro studi Sereno Regis di Torino, come colleghi dell’Università di Cagliari, il gruppo di lavoro Economia Disarmata del Movimento dei Focolari, il Comitato riconversione Rwm, l’Ufficio diocesano della Pastorale sociale del Piemonte, Archivio Disarmo, il Centro Studi Pax Christi, The Weapon Watch (Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo), la Fondazione Finanza Etica, la Rete italiana pace e disarmo.

Secondo la disamina operata dal Laboratorio, dunque, sono tanti i segnali che confermano la crescita del comparto bellico in settori importanti dell’economia italiana. Ulteriori sintomi di «un processo di generale riarmo e di una crescente egemonia culturale che giustifica e legittima la guerra». Quella che sui principali media bolla senza appello chi mette in discussione l’uso dello strumento bellico come « putiniano » o «filo-Hamas».

Tra gli esempi più eclatanti di questo trend politico-industriale è, secondo il Laboratorio, la progressiva concentrazione nel settore “difesa” di molti gruppi industriali italiani. Nel 2000 Fiat Ferroviaria è stata ceduta alla francese Alstom. Nel 2015 Leonardo ha venduto l’Ansaldo Breda alla multinazionale giapponese Hitachi. Sempre Leonardo e gli eredi Agnelli hanno ceduto a giugno il controllo dell’industria italiana autobus, rinunciando al rilancio di un settore, quello del trasporto pubblico, decisivo nella transizione ecologia delle metropoli italiane. Poi c’è il caso di Torino, con il progetto di Leonardo sulla “Città dell’Aerospazio” per riqualificare un’area industriale urbana. Una prospettiva attraente, ma che – come fa notare il Centro Sereno Regis – sembra indirizzata soprattutto alla creazione di un polo destinato all’innovazione tecnologica nel settore dei sistemi d’arma. In tutt’altro contesto territoriale si colloca il caso della sarda Rwm, sorta nell’area economicamente depressa del Sulcis Iglesiente. Un’area ex mineraria in cui una fabbrica di esplosivi da cava è diventata uno stabilimento della tedesca Rheinmetall per la produzione di missili e bombe da aereo. Grazie a una intensa campagna delle organizzazioni della società civile, che chiedeva solo l’applicazione della legge 185/90 sull’export bellico, il governo Conte nel 2019 sospese l’autorizzazione alle esportazioni di armi alla Coalizione saudita in guerra con lo Yemen, poi nel 2020 l’ha revocata. Il 31 maggio 2023 la marcia indietro del governo Meloni, che ha eliminato la revoca, riammettendo tra i danarosi clienti dell’export bellico italiano il governo di Riad. Non è un caso che contemporaneamente il Parlamento stia lavorando su una riforma che depotenzia la legge 185. « Ma la strategia complessiva è perfettamente bipartisan – avverte Carlo Cefaloni, coordinatore del gruppo di lavoro su Economia disarmata dei Focolari – come dimostra la funzione della Fondazione Med-Or di Leonardo, presieduta dall’ex ministro del Pd Marco Minniti». Fondazione che ha stilato accordi con molte università italiane, scatenando le proteste di molti studenti, contro la commistione tra industria della difesa e ricerca scientifica.

Sul tema il Laboratorio ha coinvolto docenti dell’Università di Cagliari per studiare progetti di riconversione tesi a scardinare il ricatto occupazionale nell’area sudorientale della Sardegna, dove la fabbrica di bombe è considerata una risorsa preziosa. Indicazioni utili a orientare diversamente gli investimenti nel Sulcis Iglesiente potrebbe ro arrivare dal Just transition fund, il fondo europeo destinato alle aree di difficile transizione ecologica, individuate in Italia proprio nell’area dove la Rwm sforna missili, assieme a Taranto, altra zona di ricatto occupazionale, in cui l’acciaieria ex-Ilva dà lavoro – e diffonde veleni – a migliaia di lavoratori.

Ma l’industria delle armi produce ricchezza e lavoro, ripetono i fan dell’economia armata. Falso, sostiene dati alla mano il Laboratorio sulla politica industriale di pace. Il Sipri di Stoccolma informa che l’Italia è tra i primi 10 esportatori di sistemi d’arma. Ma i dati sull’export bellico italiano parlano di 6,3 miliardi di euro nel 2023. Pari all’1,01% di tutte le esportazioni dell’Italia, pari a 626,2 miliardi di euro. Non un settore così vitale, dunque.

E non è neanche vero che gli investimenti nel comparto difesa creano tutti questi posti di lavoro. Lo studio prodotto da Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo e Gianni Alioti di Weapon Watch, presentato alla Camera a inizio luglio, dimostra che è falsa la tesi “più armi, più occupazione”. L’investimento di un miliardo di euro nel settore bellico produce infatti 3.161 posti di lavoro. Nella protezione ambientale con la stessa cifra i posti diventano 9.960, 12.800 nella sanità, 13.890 nell’istruzione. Negli ultimi 10 anni in Italia, dati fonte Nato, la spesa militare è aumentata del 26%, a fronte di un aumento del 9% del Pil. E solo del 4% dell’occupazione.

Se dunque il comparto della Difesa non è nemmeno vantaggioso dal punto di vista economico e occupazionale, il Laboratorio sulla politica industriale di pace chiede alla società civile e soprattutto alla politica una riflessione: ridiscutere le linee di politica estera tese a incentivare il settore dell’industria della difesa, soprattutto se controllate dallo Stato, a discapito degli investimenti in salute, cultura, welfare, molto più remunerativi. E che non alimentano lo scenario di ulteriori escalation, fino alla prospettiva apocalittica delle armi nucleare. Tema su cui, fino a ieri, esisteva un tabù. Di cui invece si torna a discutere come un’opzione possibile.

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