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Dalla Liberia al Camerun, le donne d’Africa sono diventate protagoniste

L’autrice di questo articolo è giornalista e saggista. Il suo ultimo libro è “La meccanica della pace” (People, pagg. 224, euro 16)

La firma in calce agli accordi di pace è quasi sempre quella degli uomini, le donne vanno cercate più in fondo, bisogna scendere fino alle radici, alle grassroots, nelle comunità. È lì, tra la gente, nella società civile, che le donne tessono quella pace che una firma da sola non garantisce. Attiviste, mediatrici, peacebuilders, le donne si muovono dove non le vede nessuno per aprire varchi e costruire ponti, ma poi arrivano dove essere viste significa mettere a rischio la vita, fino alle piazze e ai tavoli dove siedono gli uomini. È successo e succede in Camerun, in Liberia, nelle Filippine, in Colombia o in Yemen, in Palestina, in Irlanda. E la storia, allora, muta corso.

Sono passati vent’anni dagli accordi di Accra che hanno messo fine alla guerra in Liberia: senza le donne, forse, quella pace non sarebbe arrivata. «In passato noi siamo state silenziose ma dopo essere state uccise, stuprate, deumanizzate e infettate con le malattie… la guerra ci ha insegnato che il futuro risiede nel dire no alla violenza e si alla pace», racconta Leymah Gbowee, il cui impegno le è valso il premio Nobel. Leymah è riuscita a mobilitare donne di ogni fede ed estrazione sociale, che si sono sedute davanti alla stanza dove gli uomini negoziavano, sbarrandone le porte fino a quando non è arrivata una prima firma. Erano stanche anche le donne del Camerun. Quando gli studenti della scuola di Kumba sono stati massacrati, nella guerra che devasta da anni le regioni anglofone del Paese, loro sono scese in strada e sono arrivate a negoziare con i gruppi armati almeno la riapertura delle scuole. Entrambe la parti in conflitto «consideravano l’attivismo delle donne politicamente irrilevante; la percezione patriarcale che le donne sono naturalmente inclini alla pace ha consentito loro di organizzarsi indisturbate» scrive l’International Crisis Group. È così che le donne si guadagnano il titolo di negoziatrici affidabili perché capaci di dialogo, ma anche perché non fanno paura, non hanno mai gestito il potere. Nell’irrilevanza le donne imparano l’arte di usare gli stereotipi e poi sfidarli, sconfiggerli. Esther Omam è a direttrice di un’organizzazione camerunense, Reach Out Cameroon, che ha contribuito a costruire coalizioni di donne di pace: «Le donne non usano solo la testa, ma la testa e il cuore… ». È il contatto con le comunità a dar accesso alle donne alla conoscenza di ferite da sanare o bisogni a cui rispondere per costruire una pace che duri. Le portano al tavolo delle trattative, ampliando i temi delle agende negoziali, come hanno fatto le donne irlandesi, cattoliche e protestanti insieme, a cui si deve l’inserimento nel Good Friday Agreement dei diritti delle vittime, della riconciliazione, della reintegrazione dei combattenti. Sono arrivate in cima anche le donne del Camerun. Hanno portato la loro voce dalle strade fino alle Nazioni Unite. Allora, però, quando il mondo le ha viste, hanno smesso di essere “irrilevanti”, si è sollevato il velo degli stereotipi e quel potere di cambiare le cose ha iniziato a fare paura. Hanno cominciato a ricevere intimidazioni, violenze, come quelle subite da Esther, aggredita, i suoi figli rapiti. Dal 2018, un terzo delle donne invitate a parlare al Consiglio di sicurezza Onu è stato soggetto a ritorsioni e intimidazioni. Non si sono arrese, però, in Camerun, non si è arresa Esther, come non si arrendono alla guerra le peacebuilder in altre parti del mondo, continuando ad usare le armi di pace a cui si sono addestrate nell’ombra: resilienza, ascolto, parola e pazienza.

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