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Se essere imprenditori è un’attitudine civile

Il saggio di Mark e Catherine Casson parte dalla centralità dell’imprenditorialità nel sistema economico Chi gestisce un’impresa è chiamato a bilanciare i flussi produttivi facendoli interagire con il principale fattore di produzione: il capitale umano

Flavio Felice

La recente pubblicazione dell’edizione italiana del saggio del 2013 di Mark Casson e Catherine Casson L’imprenditore nella storia. Dal mercante medievale al moderno uomo d’affari, impreziosita da un saggio di Franco Amadori e dalla presentazione delle curatrici Stefania Ecchia e Angelina Marcelli per Rubbettino, ci consente di introdurre un tema delle scienze sociali estremamente importante. Si tratta della teoria dell’imprenditorialità, un tema certo non nuovo nella riflessione economica, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista teorico-concettuale, tuttavia spesso presentato come precipitato della storia e della teoria dell’impresa.

Al cuore del volume curato da Ecchia e Marcelli troviamo invece il tentativo di approcciarsi alla funzione imprenditoriale, ponendo al centro della ricerca una possibile elaborazione teorica della nozione di imprenditorialità, a partire dalla complessa storia di tale concetto, nonché dal contesto istituzionale di tipo inclusivo e dalla logica problem solving che essa necessita.

Gli assunti sui quali le curatrici imbastiscono tutte le parti del libro sono sostanzialmente due. In primo luogo, si parte dalla centralità dell’imprenditorialità nell’ambito del sistema economico, indicandola come risorsa scarsa che attiva quei processi di utilizzazione dei fattori di produzione, ottimizzandone la funzione di utilità. In secondo luogo, una qualsiasi teoria dell’imprenditorialità andrebbe sempre testata empiricamente nel lungo periodo, ricorrendo all’analisi dei casi di studio tra loro comparabili.

I riferimenti teorici più prossimi ad un simile approccio sono gli stessi padri nobili della teoria dell’imprenditorialità: da Richard Cantillon a Joseph Schumpeter, da Frank Knight a William Baumol, fino a giungere a Israel Kirzner e, personalmente aggiungerei almeno altri due interpreti: il mercante raguseo Benedetto Cotrugli, per quanto concerne l’epoca premoderna, e il teorico dell’impresa Peter Drucker, per quanto riguarda l’epoca contemporanea. Che cosa hanno in comune autori così distanti nel tempo e nell’elaborazione teorica? Credo che possano essere accostati da una comune tensione a leggere i fenomeni economici e civili dal punto di vista dell’imprenditore e non del soggetto impresa, la cui forma e la cui esistenza appaiono funzione del suo operato e non il contrario. A tal proposito, vorrei brevemente soffermarmi su un aspetto della teoria dell’imprenditorialità, particolarmente presente nell’opera di uno degli autori poc’anzi citati: il neo-austriaco Israel Kirzner, allievo di Ludwig von Mises e debitore dell’opera del premio Nobel Friedrich von Hayek. Alla base della teoria dell’imprenditorialità di Kirzner, la cosiddetta « alertness »: la prontezza imprenditoriale, abbiamo la teoria misesiana dell’«arbitraggio». In breve, in un sistema di imprese in competizione e non in concorrenza perfetta, il profitto non è altro che la differenza di prezzo tra due mercati: il mercato di oggi e il mercato di domani. Le opportunità di profitto emergono quando i prezzi di mercato attuali non riflettono una condizione di equilibrio (ossia sempre).

In definitiva, per Kirzner, l'imprenditore è colui che vede le opportunità che altri, per errore o incapacità, non riescono a vedere; ecco come sintetizza tale concetto: « L’ispirata intuizione che consente allo scopritore di accorgersi della presenza di terre lì dove altri fino ad allora avevano visto solo nuvole […] è tanto creativo quanto lo è la visione ispirata dello scultore che vede nel marmo e nello scalpello non semplicemente marmo e scalpello, ma una sublime forma che attende solo di essere tirata fuori».

In questa prospettiva, l’imprenditorialità appare come la capacità (virtù) che rivela la soggettività creativa della persona: a tutti i livelli e a tutte le fasi della produzione.

Una capacità che, sulla scorta dell’insegnamento di Giovanni Paolo II in Laborem exercens e Centesimus annus, consente alla persona di accrescere la propria umanità e che le permette di porre in essere nel tempo presente un’organizzazione del lavoro produttivo chiamata impresa. Il tutto si consuma nella civitas hominum, dunque, in considerazione delle condizioni incerte di un futuro ignoto. In altre parole, si tratta dell’attitudine civile, sottoposta a vincoli, a gestire i flussi produttivi presenti nel territorio, facendoli interagire con il principale fattore di produzione: il capitale umano, per la realizzazione di beni e servizi da destinare al mercato. Ed è questo il dono più importante che gli imprenditori offrono quotidianamente alla civitas.

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