IL DOVERE DI SVEGLIARSI
FRANCO
VACCARI
Contro il mito del conflitto ineluttabile
Ineluttabile. Ecco la parola che si sta insinuando, silenziosa e vischiosa, nei nostri pensieri. Prima come una paura indistinta, poi come dubbio sussurrato nei discorsi, infine come una certezza cupa che ci sembra ragionevole accettare: «La guerra è inevitabile». È questo il virus che sta infettando le nostre coscienze.
Lo si dice sottovoce, tra una sigaretta e un caffè: «Hai visto? Sta succedendo di nuovo…». «Eh, temo proprio di sì», risponde l’altro. E quel cenno, quel consenso mormorato, è il primo mattone di una resa.
Poi, alla conversazione successiva, la voce si alza, l’opinione si fa posizione, e la posizione si trasforma in fatalismo cinico. Ed ecco che la guerra – qualunque guerra – smette di essere una tragedia e diventa un destino.
Ma la guerra non è un destino. È una scelta.
Una scelta folle, costruita giorno dopo giorno, passo dopo passo, comportamento dopo comportamento. Lo ha ricordato, con la lucidità che gli è propria, il presidente Mattarella: «Ci si muove su un crinale in cui, anche senza volerlo, si può scivolare in un baratro di violenza incontrollata». È quel «senza volerlo» che ci chiama in causa. È lì che si annida il rischio più grande: non nel fragore dei cannoni, ma nella distrazione e nell’apatia quotidiana, nella rinuncia alla responsabilità, nel fatalismo comodo di chi pensa che non ci sia più nulla da fare… Non è vero. Quel 1914 può non replicarsi in un tragico 2025. La storia lo dimostra: non è sempre andata così. Ci sono stati momenti in cui l’umanità si è fermata a un passo dal disastro. Ottobre 1962: crisi di Cuba. Due superpotenze con il dito sul grilletto nucleare. Non scoppiò nessuna guerra.
Ottobre 1956: crisi di Suez. La politica mondiale sembrava impazzita, eppure si trovò una via d’uscita.
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Franco Vaccari
Dalla prima pagina
E poi, più tardi, la più grande sorpresa della Storia: il Muro di Berlino che cade senza sparare un colpo. Chi lo avrebbe detto? Chi ci avrebbe scommesso? E invece accadde. Perché l’ineluttabile, a volte, si disintegra sotto il peso della volontà, dell’intelligenza, della responsabilità. Si scioglie nelle correnti calde e sotterranee delle coscienze che si sono tenute deste anche senza poter comunicare. Perché anche l’abisso, se guardato con lucidità, può diventare un limite oltre il quale si decide di non andare. È questo il punto. La guerra è una costruzione collettiva, e quindi può essere anche una rinuncia collettiva. Un rifiuto – un ripudio! – che inizia da ognuno di noi.
Non si tratta di illusioni da anime belle. Nessuno pretende di cancellare la violenza dalla faccia della Terra. Ma la guerra, come istituzione, come strumento della po-litica, come automatismo della Storia, quella sì, possiamo sperare di eliminarla. Kant scriveva come se la pace fosse possibile. Noi viviamo come se la guerra fosse certa. È questo il rovesciamento da operare.
E allora, che fare? Resistere al cinismo. Rifiutare la narrazione dell’inevitabile. Spegnere il chiacchiericcio e accendere la coscienza. «Sì, parole giuste, ma purtroppo non le ascolta nessuno…»: quante volte l’abbiamo detto di papa Francesco, di papa Leone, di tutti coloro che, nella storia, hanno provato a indicare un’altra strada. Ma chi lo dice, chi lo ripete, ha già abdicato. Ha scelto il silenzio, la comodità dell’irrilevanza.
La convinzione dell’ineluttabilità genera impotenza. Ma no, non siamo impotenti. Possiamo decidere come parlare, come pensare, come agire. Possiamo – dobbiamo – conservare quell’inquietudine morale che distingue il cittadino dal suddito. Perché i governanti del nostro tempo rischiano di diventare dominatori anziché servitori, se si spegne l’inquietudine dei cittadini. E questa inquietudine deve essere viva, deve disturbare, deve far male. Non basta più commentare con sarcasmo le grottesche pantomime crescenti del potere. I duemila anni passati dall’imperatore Caligola, che nominò senatore il proprio cavallo, ci fanno sorridere. Ma oggi – oggi – chi governa non ha bisogno di cavalli. Gli basta che noi diventiamo spettatori passivi, commentatori senza coraggio, cinici senza idee. È questo il nuovo potere: un’autorità che prospera sull’assenza di responsabilità. E allora, no: la guerra non è inevitabile. È possibile, certo. Ma proprio per questo deve essere combattuta: non con le armi, ma con la lucidità, con l’impegno, con la voce. Con la politica, nel suo senso più alto. Con la cultura, con la memoria, con il coraggio di non abituarsi. Si può resistere allo scivolamento verso l’abisso. Si deve. Perché l’ultima eco del fatalismo non è la saggezza, ma il vuoto. Il vuoto morale. Il vuoto spirituale. È lì che finisce tutto: quando ci convinciamo che la guerra non si può fermare. È questa convinzione – non le bombe – che segna la nostra sconfitta. I pezzi della terza guerra mondiale si ricompongono in un unico pensiero sull’inevitabilità della guerra. E invece, oggi più che mai, serve qualcuno che abbia il coraggio di credere che la guerra si può cancellare. Non da soli. Non in un giorno. Ma cominciando da qui, da ora, da noi. «Il mondo sarà salvato da chi non si rassegna». E noi, vogliamo essere tra questi.
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