«L’amore di Dio è un’esperienza per tutti»
GIUSEPPE
BETORI
L’ARCIVESCOVO DI FIRENZE INTERVIENE SULLA DICHIARAZIONE «FIDUCIA SUPPLICANS»
Il cardinale Betori: nella condizione di fragilità che segna la nostra vita il Signore ci chiama a un percorso di fede
Il porporato ricorda le parole di Giovanni XXIII in apertura del Concilio quando sottolineava che «occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi»
Il dibattito che si è aperto nella comunità ecclesiale, come pure sui mezzi di comunicazione, attorno alla Dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni rischia di porre su due fronti contrapposti i difensori della retta dottrina e i fautori delle esigenze della pastorale, quasi che dottrina e pastorale possano tra loro separarsi e perfino opporsi.
Si sta in tal modo dimenticando la fondamentale lezione del santo papa Giovanni XXIII che, aprendo il Concilio Vaticano II, si preoccupò di avvertire che l’indole pastorale non era verso cui piegare la dottrina, in quanto la dimensione pastorale è fattore costitutivo della verità cristiana che scaturisce non da un disvelamento della verità in sé ma dalla volontà divina di comunicare il mistero « propter nostram salutem ». Merita rileggere le parole del santo Papa al centro del discorso inaugurale del Concilio: «Occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. [...] Si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al Magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» ( Gaudet Mater Ecclesia, 5).
Pensare in questi termini la verità e il suo annuncio non toglie nulla alla sua integrità, ma rende consapevoli dello stretto nesso tra volontà salvifica di Dio e condizione storica dell’uomo. Ogni verità per essere proclamata ha bisogno di essere concretamente situata nella vita e quindi anche nelle sue ambiguità.
È esperienza di ogni parroco, ma anche di ogni vescovo, di venire avvicinato da persone che chiedono una benedizione per sé o per un loro caro. Viene chiesto di intercedere affinché Dio si volga con sguardo misericordioso su una particolare situazione di sofferenza, ma anche, più in generale, sulla condizione di fragilità che connota l’esistenza umana. Nessun prete negherà di offrire un segno della paternità amorevole di Dio verso ciascuna delle sue creature, né chiederà o si chiederà quale sia la condizione del richiedente in rapporto a Dio, se egli sia o no in una situazione di peccato, ovvero quale sia il suo rapporto con la fede cristiana. Anche non credenti o fedeli di altre religioni possono chiedere a un ministro della Chiesa di essere benedetti: accade anche questo nella concretezza della vita di un prete o di un vescovo. Si dovrebbe forse rispondere con un diniego, o piuttosto si deve riconoscere in quella richiesta un’apertura verso Dio, quel Dio che – Gesù ci ha insegnato – «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti » ( Mt 5,45)? L’amore di Dio è infinito, non discrimina, «non allontana nessuno che si avvicini a lui invocando umilmente aiuto» ( Dichiarazione, 33).
È in questo orizzonte più ampio della missione di un ministro di Dio che ritengo debba essere accolta la proposta – da valutare caso per caso, come viene indicato – dalla Dichiarazione del Dicastero di non far mancare anche a chi si trova in una situazione di vita oggettivamente in contrasto con la morale cristiana un gesto che dica che nessuno è dimenticato da Dio e che il suo amore di Padre non esclude nessuno e, nel momento in cui si manifesta, diventa anche richiamo alla fedeltà nei confronti della sua Parola.
La Dichiarazione è molto chiara nell’affermare che la benedizione non è un atto che sancisce la bontà di una situazione di vita e neppure la legittima. Lo fa anche collocando questa benedizione al di fuori di ogni forma liturgica, non prevedendo alcun rituale per le benedizioni di coppie in una situazione irregolare o dello stesso sesso. Lo fa soprattutto ribadendo che occorre evitare di «creare confusione tra ciò che è costitutivo del matrimonio, quale “unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli”, e ciò che lo contraddice» ( Dichiarazione, 4).
Per tornare all’orizzonte aperto da Giovanni XXIII, non si tratta di un ampliamento del concetto di matrimonio ma di un’applicazione concreta della convinzione di fede che l’amore di Dio non ha confini e proprio il suo operare è alla base del superamento delle situazioni difficili in cui versa l’uomo.
Le benedizioni – come esplicita la Dichiarazione – sono «una risorsa pastorale piuttosto che un rischio o un problema» ( Dichiarazione, 23), un gesto che «non pretende di sancire né di legittimare nulla», in cui «le persone possono sperimentare la vicinanza del Padre “oltre ogni desiderio e ogni merito”» ( Dichiarazione, 34).
Un richiamo al comportamento di Gesù, così come ce lo testimoniano i Vangeli, può essere utile a illuminare il senso di questa proposta di benedizione pastorale. Quando Gesù si pone di fronte a una condizione di peccato ed esercita il suo potere di perdono tale concessione è di norma legata a un appello alla conversione. Ma quando egli viene chiamato a intervenire su situazioni di fragilità umana, di sofferenza fisica e spirituale, egli non chiede che colui che gli si rivolge si trovi in una condizione di perfezione morale, ma chiama lui o gli astanti alla fede.
La benedizione di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso mi sembra che si debba collocare in questo orizzonte, come una richiesta di aiuto per le condizioni di fragilità che segnano la vita di tutti, per cui non a caso la Dichiarazione ne riconduce l’effetto alle «grazie attuali». Significativa al riguardo è la conclusione della Dichiarazione, che riprende le parole di papa Francesco «“Questa è la radice della mitezza cristiana, la capacità di sentirsi benedetti e la capacità di benedire [...]. Il Padre ci ama, e a noi resta solo la gioia di benedirlo e la gioia di ringraziarlo, e di imparare da Lui a benedire”. Così ogni fratello e ogni sorella potranno sentirsi nella Chiesa sempre pellegrini, sempre mendicanti, sempre amati e, malgrado tutto, sempre benedetti» ( Dichiarazione,
45). Di fronte alla missione di mostrare che l’amore di Dio si rivolge a tutti, proprio far fare esperienza di questo amore è la strada che può condurre a chiedersi come a esso si risponde con fedeltà alla sua volontà.
Cardinale arcivescovo di Firenze
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’arcivescovo Betori con alcune famiglie della sua arcidiocesi Papa Francesco in Laterano / Ansa