La Trinità dipinta da Masaccio, icona di speranza
GIUSEPPE MARCO
SALVATI
Nella basilica di Santa Maria Novella, a Firenze, è presente uno dei capolavori dell’arte italiana: l’affresco di Tommaso di Ser Giovanni di Mòne, detto Masaccio (morto nel 1428), che raffigura la Trinità nell’ora della croce. L’opera, risalente probabilmente al 1427, raffigura il Padre che sostiene la croce sulla quale sta il Figlio, mentre tra il Padre e il Crocifisso si staglia la figura dello Spirito, presente sotto forma di colomba. Ai piedi della croce stanno Maria, la Madre di Gesù, e l’apostolo Giovanni. Mi piace pensare questo affresco come un’“icona della speranza cristiana”, che può significativamente accompagnare i pellegrini che in questo Anno Santo – in ogni parte del mondo - si muovono verso le Porte della Misericordia, in spirito di conversione e di accoglienza del perdono di Dio. Diverse sono le ragioni che giustificano una tale possibile interpretazione dell’opera. Una prima: l’affresco è situato al di sopra di un monumento sepolcrale, per cui va inteso come un evidente riferimento, sia da parte dell’autore dell’opera (Masaccio), sia da parte dei committenti (Berto di Bartolomeo della famiglia Del Banderaio e sua moglie Sandra), alla fede cristiana, che guarda l’evento della croce con la certezza che Cristo è risorto e che tutti quelli che muoiono, a loro volta risorgeranno, in virtù di questa morte speciale qui raffigurata. La mors turpissima crucis (Cicerone), che il Crocifisso ha vissuto sul Calvario, alimenta la speranza della vita eterna: il Vivente per eccellenza, il Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, dal quale siamo creati e amati, in virtù della morte di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, destina anche noi alla vita senza fine. Il dramma del Golgota, qui raffigurato, accadde «per noi uomini e per la nostra salvezza». Quella specialissima morte porta la vita («da un albero la morte, da un albero la vita») e garantisce, a chi dà fiducia al Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, che anche noi risorgeremo. Ora, se la speranza indica, come insegna Tommaso d’Aquino, un bene futuro, arduo e raggiungibile, il Calvario è una vera e propria “miniera” di speranza.
La seconda ragione: se la Trinità è presente nell’ora di dolore del «Verbo che carne è diventato» (Gv 1,14), quelli che credono in Gesù Cristo sanno che ogni ora “crocifissa” dell’esistenza non sarà più momento di drammatica solitudine, ma evento di misteriosa presenza e coinvolgimento di tutta la Trinità. Il Dio trino condivide la nostra vita: il Padre, il Figlio consustanziale a Lui (nell’affresco, questo aspetto è richiamato dalle uguali dimensioni dei due) e lo Spirito, eternamente proveniente da essi, “visitano” le creature che sono nel dolore, non sono altrove, ma con loro. Come afferma san Bernardo, « Dio è impassibile, ma non senza compassione». Il Calvario significa un “no!” a un Dio indifferente spettatore dei nostri drammi; smentisce ogni falsa teo-logia che pensasse Dio come un sovrano architetto senza sentimenti, senza pathos. Dal Golgota scaturisce una luminosa speranza: il Dio trino è con noi, ci accompagna, con discrezione, quasi sempre nel silenzio, senza per questo sfuggire alle nostre domande e proteste, riassunte ed espresse dal grido di Gesù: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). Egli è il Dio presente, il Dio con noi, il compagno fedele che è capace di con-dolere, con-solare; è il Misericordioso che si china sulle piaghe dei suoi figli, compatendole.
Terza ragione. Questa icona ricorda che Dio, nel momento in cui viene a visitare chi sta nel dolore, non divinizza o eternizza il negativo, né viene a insegnare rassegnazione e passività. Il Dio trino, che vive seriamente l’esperienza del Calvario, valorizza la sofferenza, come ricordava san Giovanni Paolo II, perché le conferisce un valore salvifico ( Salvifici doloris, 18 ). Inoltre, insegna la solidarietà: la ricchezza e il potere dividono, la croce unisce ... L’uomo credente soffre con chi soffre, si fa compagno di viaggio di chi affronta le “salite al calvario” della vita. In altre parole, il Venerdì santo insegna che di fronte alla sofferenza, nessuna passività è consentita, né quella di chi patisce, né quella di chi compatisce. Gesù di Nazaret ha detto con chiarezza che il possesso della vita eterna dipende strettamente dall’esercizio della solidarietà con chi soffre: «venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...» (Mt 25,31ss.). La condivisione vissuta dai Tre in modo speciale nell’ora della croce, spinge anche a combattere la sofferenza, impegnandosi a eliminarne le cause, se possibile; a lottare contro le ingiustizie, le discriminazioni, la mancanza di fraternità, la negazione dei diritti fondamentali di ogni uomo. Dal Calvario viene proposto un altro bene futuro, arduo e raggiungibile: una vita senza lotte, senza ombre, senza drammi, nella pace, nella gioia, nell’amore condiviso, nel comune riferimento al Dio che liberamente ci ha voluti e amorevolmente ha trovato “spazio e tempo” per le creature.
Un’ultima considerazione, anch’essa matrice di speranza. Nell’affresco di Masaccio, la figura di Maria è rappresentata con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, mentre con la mano indica ciò che sta accadendo. La serenità del suo sguardo attutisce la drammaticità del momento e infonde fiducia; la Madre di Gesù non rimprovera, ma coinvolge; non accusa, ma vuole rassicurare sul fatto che il bene futuro e arduo è raggiungibile, grazie ai Tre, grazie al Figlio crocifisso e risorto. Ella indica un “oltre”, reso possibile da ciò che il Figlio, con il Padre e lo Spirito stanno realizzando; ella invita l’osservatore a proiettarsi verso un domani che è superamento della morte e del dolore.
*prelato segretario Pontificia Accademia di Teologia
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