La partita doppia di immagine e sacramento
ANDREA
GRILLO
Se c’è una reciprocità tra storia dell’arte e storia della liturgia, c’è una coincidenza anche cronologica tra il ripensamento del mysterium del culto e la svolta iconica: un tempo come oggi tra le due sfere esiste un travaso costante e reciproco
Un punto che illumina grandemente il dibattito sull’immagine, in rapporto al sacramento, è la discussione intorno all’aspetto simbolico della tradizione. Qui si incrociano due preoccupazioni diverse: da un lato il compito di ripensamento del “simbolo” da parte della tradizione sacramentaria; dall’altro l’emancipazione dell’immagine dalla mera funzione rappresentativa e didattica, cui spesso è stata ed è ancora ridotta. In fondo, le due “storie” si incrociano qui su un pinnacolo particolarmente alto, malagevole, ma la cui percezione è già consistente. La coscienza teologica del Novecento non è ingenua sul punto e ha cercato, faticosamente, di uscire dalle secche di una riduzione “segnica” dell’immagine come del sacramento. Una teoria della “conoscenza simbolica” (Romano Guardini), del “simbolo reale” (Karl Rahner), dello “scambio simbolico” (Louis-Marie Chauvet) o del “dono efficace” (Giorgio Bonaccorso) sono eventi culturali disposti lungo il XX secolo e oltre, che hanno riscattato la tradizione della teologia dei sacramenti da una povertà concettuale, legata a formalizzazioni scolastiche, la cui influenza sul magistero continua però in modo assai pesante.
Le raffinate elaborazioni della svolta iconica nel campo dell’immagine o della svolta rituale nel campo sacramentale non impediscono, oggi, di continuare a ragionare sulla “validità del sacramento” come se ci fossero solo “formule verbali” ed “elementi materiali”, senza alcuno spessore né di icona né di simbolo né di rito. L’immagine e il rito sono ancora scomposti (e forse decomposti) nelle loro componenti elementari riconducibili alle “cause aristoteliche”. Alla piccola intelligenza teologica, assicurata da questi dispositivi classici di controllo del sacramento, corrisponde, però, una lussureggiante cura del “culto” come mera affezione contemplativa, attaccamento sentimentale e regolata devozione. Né immagine né simbolo hanno così vero spazio: a una teologia poco intelligente corrisponde un fervore sempre esposto, con tutte le benedizioni del caso, al rischio dell’idolatria.
Un aspetto appare del tutto sorprendente. La storia che Zanchi offre al lettore – in estrema sintesi, ma con accurata progressione – corrisponde a una tendenza che ha profondamente segnato anche il campo del sacramento. Diremmo che la “crisi dell’arte”, intesa come “forma moderna” di comprensione dell’immagine, collocata da Giuliano Zanchi tra G.W. Friedrich Hegel e Friedrich Nietzsche, corrisponde – quasi nei medesimi anni – alla crisi del sacramento, che domanda parole nuove e prassi riformate. Spesso si dimentica come una nuova impostazione del momento sacramentale sia scaturita in modo peculiare dal ripensamento della “azione liturgica”. Anche per il sacramento la novità è sorta dalla nuova attenzione che, a partire da Antonio Rosmini e Prosper Guéranger, tra il 1820 e il 1840, si è manifestata intorno alla celebrazione liturgica e al suo valore per la esperienza di rivelazione e di fede. I concetti nuovi matureranno agli inizi del XX secolo, ma costituiscono, ancor oggi, non solo le parole più alte del Movimento liturgico, ma i princìpi di una grande ricomprensione della teologia del sacramento.
La liturgia viene riscoperta come culmen (culmine) e come fons (fonte) di tutta l’azione della chiesa mediante il concetto di mediazione di Maurice Festugière, maturato in dialogo stretto non solo con la filosofia, ma con la biologia e con l’antropologia; mediante i concetti di “forma di vita” e di “gioco”, di “conoscenza simbolica” e di “azione” elaborati da Romano Guardini in forte connessione con la filosofia e la fenomenologia; mediante il concetto di “mistero del culto” escogitato dalla ricerca di Odo Casel, il quale, nell’ultimo lavoro degli anni Quaranta ( Fede, gnosi e mistero), durante la Seconda guerra mondiale, ha scritto pagine memorabili sull’esigenza di sostituire il concetto di “segno”, con cui la tradizione medievale aveva tradotto la parola mysterium, con il concetto di “immagine”. Sia pure all’interno di una cultura gravemente segnata da un profondo antigiudaismo, che aveva sostanzialmente censurato tutte le fonti giudaiche del sapere cristiano, questo contributo ha avuto il merito storico di contestare vigorosamente una scelta operata dalla scolastica e che pesa ancor oggi sulla cultura sacramentale cattolica. Egli, infatti, fin dal titolo del suo libro più famoso ( Das christliche Kultmysterium – 1932) aveva riunito “culto” e “santificazione”, superando quella divisione- opposizione tra azione di Dio e azione dell’uomo, che era stata una delle figure dominanti non soltanto della teoria, ma della pratica liturgica dal XIII secolo in poi. Il “mistero del culto” è un concetto imbarazzante, perché sollecita una comprensione del “segnoimmagine” non riferita soltanto al modo con cui Dio santifica l’uomo, ma anche riferita al modo specifico con cui l’uomo si pone, attivamente e passivamente, in rapporto a Dio. Vi è, perciò, nel Movimento liturgico, la traccia evidente di una ricomprensione operativa, performativa e istituente dell’azione di culto, che si lascia illuminare dalla (e a sua volta illumina la) ricerca sulla teoria della immagine.
Fin dalle sue prime pagine, il volume mette in relazione l’immagine come dato antropologico e sociologico con il suo lato teologico. Questo avanzamento della coscienza, che non lascia spazio ad alcuna nostalgia e che non può idealizzare alcuna ingiusta contrapposizione tra “prassi e teoria”, implica almeno tre acquisizioni, che non possono essere gestite in forma contrapposta. Da un lato la svolta iconica, che pure si interpreta come superamento della svolta linguistica, può essere compresa come un suo approfondimento, proprio in quanto comporta un’estensione del termine “linguaggio” dall’ambito verbale a quello non-verbale. I diversi codici di comunicazione implicano una dinamica nonverbale in cui espressione ed esperienza si correlano nelle forme più diverse. Il punto comune, tra le due svolte, è costituito da una nuova comprensione dell’umano, che esce dai moduli intellettualistici dai quali sono state segnate non solo le parole, ma anche le immagini. La scoperta – anche in liturgia – di una seconda svolta antropologica dipende precisamente da questa duplice svolta: un soggetto umano che non sia semplicemente produttore di parole e immagini, ma “frutto” e “mediazione” di esse, costituisce l’orizzonte che ha permesso, a partire dai primi anni del XX secolo, di riscoprire il sacramento e la liturgia non come “culmini”, ma come “fonti”. Il cammino di riscoperta della potenza della immagine, nell’info-sfera e dell’abuso diabolico del simbolico, nella comunicazione pubblicitaria, sono anche le condizioni elementari – i dati primari – di una nuova epistemologia della imago sacra e dell’actio sacra.
Precisamente in questo senso, a me pare che il sacramento dell’immagine, in tutta la sua ricchezza, chieda con forza che venga ristabilita una adeguata immagine del sacramento: che non si consideri troppo libera la teologia dell’immagine e troppo vincolata quella del sacramento. L’estetica non può considerare il “sacramento” come una nozione teologica a evidenza stabile, esattamente come la liturgia non può considerare l’immagine solo come una semplice “forma espressiva”. Questa reciprocità di storia dell’arte e di storia della liturgia è una delle belle consapevolezze che l’ultimo secolo ha portato alla luce. Nella famosa frase di Walter Benjamin, che introduce una delle riflessioni più profonde dell’ultimo secolo sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (ed. orig. 1936), il tema non è solo, in recto, l’opera d’arte, ma anche, in verso, il culto: « Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto». Il saggio di Zanchi svolge in modo lucido le implicazioni di questa frase sul lato accidentato dell’opera d’arte e addita con finezza le sue conseguenze nel campo minato del culto. Così egli fa in modo che questa bella affermazione, da Benjamin formulata al passato, possa essere riscritta al presente e al futuro: senza nostalgia, senza illusioni, ma con quella immaginazione e con quella parresia di cui ha bisogno la cultura della fede cristiana e la fede cristiana nella cultura.
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È necessaria una ricomprensione reciproca: «L’estetica non può considerare il sacramento come una nozione teologica a evidenza stabile, esattamente come la liturgia non può considerare l’immagine solo come semplice forma espressiva»
Jean-Auguste-Dominique Ingres, “La Vierge à l’hostie”, 1864 Parigi, Musée du Louvre / WikiCommons