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Nei volti del razzismo un flash dell’inconscio

TELMO

PIEVANI

Nel definire alcune differenze tra gli esseri umani si parla ancora di razza, ma la scienza da tempo ha dimostrato l’infondatezza di questo concetto

Dalla percezione visiva di una certa diversità somatica si genera nel cervello un impulso di allerta che in un attimo viene però corretto dal riconoscimento di uguaglianza. Ma quando nella società dominano paura e psicosi si palesa un sentimento biologicamente immotivato

Il razzismo, se interpretato in una chiave evoluzionistica, è un paradosso. Anzi, un doppio paradosso. Secondo diversi studi di visualizzazione attraverso risonanza magnetica funzionale, quando il nostro cervello è esposto alla visione dei volti di persone estranee ‒ in quanto appartenenti, per esempio, ad altre popolazioni umane con fisionomie diverse ‒ manifesta una reazione contraddittoria. Se a un newyorkese di pelle chiara si mostra un afroamericano o viceversa, di primissimo acchito si attivano (oltre ovviamente all’area fusiforme facciale) zone subcorticali profonde, come l’amigdala, che segnalano una potenziale minaccia. Il cervello sembra dire: «Chi è questo? Non fa parte della mia comunità, è insolito, non è uno di noi». Ma questa percezione inconscia dura poco perché dopo un terzo di secondo subentrano le aree corticali superiori che regolano la reazione emotiva automatica e un’altra area ancora provvede a conciliare le prime due. È come se, metaforicamente, una voce di ragionevolezza fosse entrata in scena e avesse riportato la calma, rendendoci consapevoli che quello è semplicemente un volto umano come un altro. In pratica, gli scienziati hanno registrato in presa diretta un conflitto interno nel parlamento della nostra mente: un conflitto tra impulsi negativi immediati e intenzioni egualitarie, tra attitudini implicite ed esplicite, che sembra avere una ragione evolutiva. Come già Darwin aveva ipotizzato ne L’origine dell’uomo e molti dati hanno poi confermato, Homo sapiens proviene da una lunga storia di socialità a piccoli gruppi. La nostra forza consisteva nel far parte di una piccola comunità ben organizzata di famiglie, coesa, solidale al proprio interno, ma in conflitto con altre tribù. Dunque, paradossalmente, il conflitto (tra gruppi) è stato il promotore della cooperazione e dell’altruismo (dentro il nostro gruppo). Da qui la nostra propensione a bollare subito qualcuno come appartenente o no al nostro ristretto “noi”. Era cruciale fare questa distinzione, e rapidamente, per non incappare in errori fatali per la sopravvivenza. Possiamo chiaramente intravedere in questa dinamica ambivalente e paradossale una possibile radice del razzismo primario. La dialettica fra cameratismo dentro il gruppo e conflitto tra gruppi dà origine, allo stesso tempo, allo spirito di cooperazione (anche mafiosi, terroristi e razzisti, purtroppo, sanno cooperare tra loro) e al tribalismo (compreso quello digitale), alla guerra tra bande, al conformismo sociale, a identità collettive settarie. Ovviamente scoprire che l’attitudine razzista può avere una radice evolutiva non significa giustificarla in alcun modo, ma solo provare a spiegarne il successo e la tenace resistenza dentro le nostre menti (quante volte abbiamo ceduto alla tentazione di fare generalizzazioni infondate sulle presunte caratteristiche di un certo gruppo umano?). Ma il paradosso è doppio. Non solo altruismo e conflitto nascono dalla stessa radice, ma oggi le attitudini razziste si scontrano contro l’evidenza scientifica, ben delineata in questo libro da Michele Pompei e Roberto Russo, della totale infondatezza biologica e genetica delle razze umane. Il razzismo cova sotto la cenere dei nostri neuroni, ma là fuori le razze non esistono. La specie umana, nata in Africa non più di trecento millenni fa, è troppo giovane e promiscua. La variabilità genetica in Homo sapiens è bassissima, si distribuisce in modo continuo, si concentra maggiormente in Africa e degrada allontanandosi dal nostro continente d’origine. Non per questo siamo tutti uguali. Al contrario, siamo tutti diversi, ma questa diversità è in grossa parte di tipo individuale, più che dipendere dal luogo geografico in cui si è nati. Una conseguenza di questo doppio paradosso è che la scoperta dell’inesistenza delle razze scalfisce solo minimamente i razzisti. Togliamo loro un argomento biologico, storicamente importante, d’accordo, ma sfortunatamente si può discriminare qualcuno anche per ragioni culturali e cognitive. La ricerca ter-minologica contenuta in questo libro lo mostra chiaramente. Attenzione, però. Nella scoperta neuroscientifica da cui siamo partiti si nascondono una notizia cattiva e una buona. Se il contesto culturale e educativo, la propaganda e gli stereotipi sociali in cui cresciamo favoriscono la paura per il diverso, può prevalere la nostra predisposizione naturale a rifugiarci in un “noi” protettivo e a vedere nell’“altro da noi” un pericolo. Il razzismo primario diventa facilmente secondario e terziario. Basti pensare al successo che hanno avuto le criminali operazioni di costruzione intenzionale del nemico, sfociate in massacri e pulizie etniche anche tra gruppi umani che fino ad allora erano convissuti nella stessa regione. Tuttavia, vale per fortuna anche l’inverso. La buona notizia è che negli esperimenti prima ricordati l’apprendimento culturale e sociale può mitigare le reazioni istintuali. Se per esempio il volto dell’altro è quello di un famoso atleta o cantante, l’amigdala non scatta sulla difensiva, perché subito lo riconosciamo come familiare, come “uno di noi”, a riprova del fatto che le esperienze individuali e l’educazione fanno la differenza. La cultura, insomma, può battere l’amigdala. Ecco perché è importante leggere e diffondere libri come questo. Sono antidoti contro scorciatoie mentali che seducono il nostro cervello. Leggere queste pagine contribuisce al sogno che Darwin raccontò nel suo libro sulle origini umane. Nonostante i nostri retaggi tribali continuino sempre a rosseggiare come brace (quanto aveva ragione), le capacità razionali e immaginative di Homo sapiens ci porteranno lentamente e faticosamente ad allargare sempre di più il cerchio di quel “noi”: dalla consolante e asfittica tribù passeremo all’intera nazione; poi un giorno capiremo che il nostro noi è la specie umana nella sua interezza; e magari in futuro saremo così bravi da includere nel noi anche gli altri animali e il resto della biosfera. Chissà se ci riusciremo davvero. Di certo, la battaglia è ancora lunga e libri come questo ci aiutano a non arrenderci.

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/ icp

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