IL MONOPOLIO DELLA NARRAZIONE SPOSTA LA BILANCIA DELLE COSCIENZE
FRANCESCO
OGNIBENE
La soluzione proposta dal regista spagnolo diventa la sola “libera”
«A uguro a tutti la salute, anche se è un augurio che non si può fare sempre». I 24mila spettatori nel catino dell’Arthur Ashe Stadium di New York dove ha appena conquistato il suo secondo Slam ascoltano Yannik Sinner sorpresi dalla scelta del neo-campione degli Us Open di dedicare la vittoria a una zia gravemente inferma. La malattia probabilmente terminale («non sta bene e non so per quanto ancora rimarrà nella mia vita»), la salute che non torna, la prospettiva di una morte che pare inevitabile irrompono nello scenario festoso di un trofeo sportivo di alto livello, nelle case di milioni di americani e di appassionati di tutto il mondo che stanno seguendo in tv la premiazione aspettandosi quasi certamente tutt’altro. Con i suoi modi educati Sinner ci ha così semplicemente ricordato che la malattia e la morte fanno parte della vita, le vorremmo neutralizzare obbedendo a un istinto naturale e all’idea radicata nella società dell’efficienza che “di queste cose non si parla”, non in pubblico, certo non in mondovisione. E allude a una verità elementare quanto ormai rimossa: attorno a una persona che soffre va stretta una rete di relazioni che la accompagnino e cerchino in ogni modo di compensare il dolore, l’angoscia e la solitudine nella quale un malato deve affrontare un’esperienza che comunque resta anzitutto sua. La rimozione culturale della sofferenza e del suo esito ultimo stanno invece producendo un cortocircuito psicologico per cui se (e visto che) una soluzione alla malattia mortale non c’è allora sarebbe più umano prevenirne gli effetti estremi, giocare in contropiede, e quando il dolore e il declino fisico si fanno gravosi considerare tra le ipotesi anche la morte volontaria. Suicidio assistito, se per mano propria con l’ausilio tecnico del personale sanitario; eutanasia, se si lascia fare ad altri. La differenza com’è evidente è davvero in una sfumatura.
Appena ventiquattr’ore prima della spiazzante scena newyorkese, alla Mostra del Cinema di Venezia un’altra premiazione – il Leone d’Oro al film The Room Next Door dell’acclamato regista spagnolo Pedro Almodóvar – ci aveva posti di fronte al medesimo interrogativo di Sinner (e se la salute non torna più?) ma con una risposta agli antipodi. Non la dolente speranza di aver sempre con sé i propri cari, che lascia intravedere una rete di affetti piena di calore («è stata una persona importante per me») ma la via d’uscita anticipata come scelta di dignità , per non lasciarla vinta alla malattia. L’eutanasia della protagonista esprime la sua volontà di «andarsene prima che sia la malattia ad avere la meglio»: «Liberarsi dal cancro diventa la sua scelta consapevole» – ha detto Almodóvar – decidendo di «terminare la sua vita quando questa le offre solo un dolore senza soluzione», e malgrado tutta la solidarietà dell’amica. Affermando a chiare lettere e con la forza di un film accuratissimo il suo messaggio inequivocabile – «vorrei esprimere in modo chiaro cosa penso: è un film a favore dell’eutanasia» – Almodóvar consegna la sua precisa idea sulle scelte fine vita ai media di tutto il mondo, che con la loro forza amplificano senza dibattito alcuno il pensiero di quello che è ritenuto un guru di un certo modo intellettualmente militante di intendere il cinema: «L’essere umano deve essere libero di vivere e di morire quando la vita diventa insopportabile». Da sabato sera questa è la versione del rapporto tra vita, malattia e libertà che circola sulla scena pubblica, senza incertezze né contraddittorio, fatta propria dai principali canali informativi più autorevoli e accreditati, copia-incollata da strumenti e piattaforme che attingono alla loro produzione, moltiplicata fino alla saturazione di ogni pertugio della comunicazione pubblica, inducendo in breve la convinzione che quella del regista sia la sola via d’uscita dignitosa e accettabile al dramma della malattia terminale. Una sorta di monopolio della narrazione, nella quale l’eutanasia fa piazza pulita di ogni altra soluzione, cancellando qualunque dubbio: alla fine nessuno sembra poter dubitare che morire volontariamente sia un modo lecito per sciogliere il nodo di un percorso di fine vita, la sola scelta libera, nobilitata dal regista di grido, dal premio prestigioso, dalle attrici straordinarie, da un film certamente di alto livello estetico. E chi la ma-lattia la affronta sino in fondo? Ha sbagliato scelta? Nessuno ne racconta il profondo, liberissimo amore alla vita? Una situazione alla quale siamo ormai ampiamente abituati: la storia di una persona sofferente per una malattia oncologica o progressiva e che chiede di morire anzitempo offerta come il simbolo del diritto di scegliere, oscurando del tutto l’esperienza e la storia di milioni di malati e di persone che li accudiscono chiedendo vita, terapie, sostegno. L’effetto di questa occupazione del racconto pubblico sul fine vita è che a ogni nuovo episodio di morte preferita alla vita (la storia di un malato o il premio a un film) la bilancia dei diritti finisce per spostarsi nel consenso popolare verso la soluzione eutanasica a scapito della cura. I diritti della maggioranza silenziata soccombono al martellamento mediatico del “diritto di morire”, che pone sullo stesso piano il valore delle due scelte (vivere o morire) e chiede a chi si oppone di tacere per non interferire con un “diritto in più”. Ma non è certo questo che una società aperta e plurale può augurarsi.
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