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La Palestina sveglia gli universitari

Da mercoledì 15 un presidio pacifico ai Benedettini, sulla scia delle proteste nei campus americani

DI GIUSEPPE RUSSO

«Finalmente ci siamo svegliati »: le parole di un mio amico, studente di Lettere, salutandomi. Ci incontriamo per caso nel cortile dell’ex Monastero dei Benedettini di Catania - sede del Dipartimento di scienze umanistiche dell’Università - la mattina del 15 maggio, dove è da poco iniziata la protesta studentesca pro-Palestina, sulla scia di quelle nate nell’ultimo mese in molti campus americani e atenei sparsi nel mondo (anche in Italia). Sopra le nostre teste, appeso alla ringhiera di uno dei balconi, un lungo drappo con i colori della bandiera palestinese. La data scelta è simbolica. Mercoledì scorso ricorreva l’anniversario della Nakba, la prima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. Era il 1948. Anche il luogo lo è per gli spazi che può fornire, e per evitare l’inutile rischio di un intervento della polizia. Il mio amico ha ragione: in pochissime circostanze, che io ricordi, la popolazione studentesca catanese si è mossa davvero per una causa. C’è da dire che la presenza è poco massiccia: poco più di un centinaio di persone presenti alla prima assemblea in cortile, ma già più di mille firme raccolte in una petizione. Si chiede all’Ateneo catanese di troncare i rapporti con le università israeliane e con “Leonardo Spa”: l’azienda italiana attiva nel settore della difesa che produce armi destinate anche ad Israele. «Le università non sono luoghi neutrali - spiega dal megafono, senza peli sulla lingua, uno degli organizzatori - qui bisogna scegliere nettamente da che parte stare. Per questo chiediamo che Unict sospenda gli accordi con uno Stato che sta commettendo crimini contro l’umanità». E mentre una delegazione di una ventina di persone muove dal Monastero a piazza Università, per parlare faccia a faccia con il rettore Francesco Priolo (una chiacchierata molto tranquilla, con tanti punti di partenza per un dialogo), ai Benedettini inizia la vera e propria “acampada”: si montano le prime tende, che rimarranno lì fino al giorno in cui verranno concretamente presi i provvedimenti di cui sopra. Nonostante ci si aspettassero forti disagi causati dalla mobilitazione, rispetto ad altre sedi di protesta il presidio è pacifico: si propongono momenti di assemblea e approfondimenti culturali sul tema, il pranzo insieme, il cineforum e sessioni musicali improvvisate. In quanto umano, davanti a questo, non posso che formulare un giudizio e chiedermi: «Per cosa ci stiamo schierando davvero?» Sembra si stia giocando una partita di calcio con due tifoserie. Cerchiamo di boicottare, interrompendo gli accordi universitari, Israele. Supportiamo a gran voce la resistenza dei palestinesi. Ma si dovrebbe porre un particolare accento all’assenza, dopo mesi, di corridoi umanitari che permettano ai civili (e studenti palestinesi e israeliani) di evacuare in Europa, come venne fatto molto più rapidamente nei confronti degli sfollati ucraini. Per qualcuno si rischierebbe di far accedere terroristi aderenti ad Hamas, ma chi fa parte di quelle milizie è una piccola percentuale del popolo palestinese. In quanto studente cattolico, infine, mi chiedo chi oltre al Papa, al cardinale Pizzaballa e pochi altri Capi di Stato, di fronte ad un conflitto a cui nessuno dei belligeranti sembra voler porre fine, si stia schierando apertamente per la pace: l’unica fazione che non accetta appena il tifo, ma che richiede di scendere in campo in prima persona con gesti concreti quotidiani. Senza necessariamente andare sotto le bombe, ma nei rapporti e nel dialogo con i colleghi, con gli amici, con i professori. Attuando un disarmo dei cuori. Per generare davvero pace e speranza, purtroppo, non bastano le proteste. Non basta fare rumore.

Foto: Luca Artino

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