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Interconnessi, ma ci si ascolta poco

Nell’era ipertecnologica della comunicazione, l’immagine di Babele dipinge la situazione attuale

FRANCESCO ANTONIOLI

L’immagine di Babele è un rovello. La sfida drammatica di Genesi 11 ci insegue, ma continuiamo a non rispondere, perché – forse – non lo capiamo. I linguaggi non hanno più trasparenza, sono cecità di significato contro i valori di senso. E determinano, alla fine, parole di odio. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana Gianfranco Ravasi partiva da qui, dalla Bibbia, per esortare a una “Pentecoste della comunicazione”. Adesso, in pieno villaggio digitale, il francescano Paolo Benanti ci ammonisce sul “crollo di Babele”: il progetto umano ipertecnologico che vuole unire l’umanità in un’unica opera, cultura e lingua, collassa, disperde i popoli e li rende incapaci di intendersi.

È l’urgenza di riprendere tra mano i codici originari che sembrano smarriti. È la centralità della relazione, ci ricordano le Scritture, a fondare la comunicazione. Siamo iperconnessi, ma viviamo relazioni malate, spesso tossiche: in famiglia; nella vita di coppia; sul lavoro; spesso e volentieri anche nella comunità ecclesiale. Il linguaggio si sta erodendo, non è nitido, ma ambiguo; preferiamo non ascoltare, con il risultato che si moltiplica l’incapacità di gestire rapporti adulti. Il cardinale Martini amava l’espressione “folla delle solitudini”. « Fools said I you do not know, silence like a cancer grows ». Ho riascoltato recentemente The sound of silence di Paul Simon e Art Garfunkel, lanciata nel lontano 1966. Per me, inesorabile boomer, una melodia emozionante. Nell’ossimoro del titolo, il suono del silenzio, c’è il tema, attualissimo, dell’incomunicabilità, del timore- tremore di restare soli con noi stessi.

Nella Bibbia – e in particolare nella vita dell’errante Rabbi galileo – troviamo invece la declinazione di quei verbi su cui potremmo intraprendere una rigenerante logopedia esistenziale. Come cittadini, come operatori della comunicazione, specie in Santa Romana Chiesa: parlare, con tutti i termini e i vocaboli che indicano la parola; e poi udire, ascoltare, vedere. Il Cantico dei cantici, nella bellezza descrittiva dell’unione tra uomo e donna, suggerisce anche la generatività della comunicazione. Tutto il contrario della deriva che stiamo vivendo in più ambiti per effetto del “marketing dell’ignoranza” – da poco descritto da un efficacissimo saggio dell’economista Paolo Guenzi, docente alla Bocconi – con le distorsioni provocate dalla “massificazione dell’eccentricità” e dalla “amazonizzazione delle aspettative”.

« Niente nostro che sei nel niente/ Niente sia il tuo nome/ Niente sia il tuo Regno/ Niente la tua volontà…».

Questa parafrasi del Padre Nostro , la più aspra che mai abbia osato la letteratura è pronunciata dal cameriere di un bar nel racconto di Ernest Hemingway «Un posto pulito e illuminato bene». Lo fa a tarda notte, dopo che con un collega più giovane si era trovato a gestire un avventore anziano, reduce dal tentativo di un suicidio, che aveva ingollato un brandy dopo l’altro. Siamo tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Hemingway scrisse il racconto quando Hitler saliva al potere. Il nulla stava avanzando impetuoso. Oriana Fallaci, nel 1969, riprese il tema dopo i suoi reportage dal Vietnam con il libro « Niente. E così sia ». Il desiderio di luce e di pulizia di quel cameriere – un posto pulito e illuminato bene – era il residuo di speranza che rimaneva. E rimane ancora oggi, in questa prima parte di millennio dove instabilità e inatteso stanno diventando elementi strutturali delle nostre vite (guerre, pandemie, crisi economiche).

Siamo nell’Anno giubilare della speranza, che papa Francesco basa sui testi paolini. Spes non confundit , la speranza non delude. Comunicarlo, in modo convincente, diventa anche una preziosa virtù civica: un imperativo categorico, un ingrediente deontologico. Ho contribuito alla mostra itinerante “Comunicare la speranza. Un’altra informazione è possibile” promossa dalla Società San Paolo e dalla Figlie di San Paolo e inaugurata in Vaticano proprio durante il Giubileo della comunicazione. L’impegno per una comunicazione di speranza – questo è il ragionamento che ha guidato me e il collega Gerolamo Fazzini con cui ho lavorato ai testi – è una passione che supera il confine tra credenti e non credenti. È passione civica per la ricerca della verità, per la difesa convinta della democrazia.

Mi preme ancora un aspetto: “il registro” della comunicazione. Siamo chiamati a vivere questo tempo presente e a volergli bene, rendendo ragione di ciò in cui crediamo, soprattutto della “speranza che è in noi” (1Pt 3,15). Ma come? Senza sentirci cittadella assediata e pronti a graffiare. Un allora giovane teologo subalpino, Roberto Repole, nel 2010 aveva opportunamente parlato di via humilitatis, la via dell’umiltà. Sì, perché la comunicazione, ci insegna la Bibbia, è una postura autorevole che affonda le radici in una buona relazione con l’altro.

giornalista e saggista

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«Viviamo relazioni malate, spesso tossiche: in famiglia; nella vita di coppia; sul lavoro; spesso e volentieri anche nella comunità ecclesiale.

Il linguaggio si sta erodendo, non è nitido, ma ambiguo»

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