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«Quei tre giorni per un testo di svolta»

IL PROTAGONISTA

UMBERTO

FOLENA

Cinque frasi nominali, rigorosamente senza verbo, separate da una minuscola virgola. Così comincia

Comunicazione e missione: veloce, velocissimo, come un centometrista che scatta dai blocchi di partenza. E pazienza se al posto dei fulminei cento metri seguono duecento pagine. L’attacco, privo di convenevoli, dà l’impronta al testo intero. Dev’essere chiaro fin da subito che la “comunicazione” di cui tratta è chiara, diretta e priva delle zavorre retoriche tipiche di troppo “documentese”.

Di quelle cinque frasi nominali sono – sorridete pure – molto orgoglioso, perché lo ho scelte io, e sono stato così convincente da farmele approvare. Usare la prima persona singolare, cosa che un buon giornalista non dovrebbe fare mai, qui è inevitabile perché questa è la testimonianza personale dei tre formidabili giorni, e delle tre formidabilissime notti, in cui vent’anni fa nacque Comunicazione e missione. Come tutti i testi importanti, ufficiali, della Conferenza episcopale, la gestazione era stata lunga. Stabilito un sommario, erano stati chiesti contributi specifici a diversi specialisti: di mass media, di società dell’informazione, di teologia, di pastorale... Almeno credo sia andata così, perché in quel momento non c’ero, non essendo esperto (in senso stretto) di alcunché. Ero destinato a essere l’uomo dell’ultimo miglio, l’esecutore; ma allora, in quei primi mesi del 2004, non lo sapevo.

Poi arrivò una telefonata dell’Ufficio nazionale Comunicazioni sociali che mi convocava a Vallombrosa per la stesura di un testo. La cosa mi suonò del tutto normale. Allora collaboravo con la Cei per la realizzazione di molti testi della più svariata natura, in forma riservata. Mi veniva chiesta una riservatezza alla quale non sono mai venuto meno, e non so se, dopo tanto tempo, ne sia ancora vincolato. Di sicuro mi divertivo molto, specialmente quando scoprivo di essere riuscito a interpretare correttamente i desideri del committente, vescovo, commissione o segreteria che fosse. Mi divertivo meno quando, in redazione, in riunione si discuteva di quel testo e mi sentivo dire: «Umberto, proprio non hai capito che cosa intendono dire i vescovi».

Ma torniamo a Vallombrosa. In tre giorni, e tre generose porzioni di notti, sotto la guida di don Claudio Giuliodori, allora direttore dell’Ufficio, prendemmo in mano i contributi degli esperti. C’erano fatali ripetizioni, stili dissonanti, qualche contraddizione. Attorno a un tavolone nacque la catena di montaggio: uno eliminava le ripetizioni, un altro garantiva coerenza, un altro ancora... e così via fino all’ultimo, io. A me toccava la stesura definitiva, coerente, bella e scorrevole, in una lingua italiana che era il primo contenuto del documento, perché medium is message: un testo che invita a una comunicazione efficace deve necessariamente essere scritto in un italiano efficacissimo. Per tre giorni il laboratorio artigiano si metteva all’opera di primo mattino, si fermava lo stretto necessario per pranzo e cena, e dopo cena andava avanti ancora un poco. Nessuna distrazione dai cellulari perché non c’era campo. Non ricordo alcun televisore. In inglese elegante fu una full immersion; in italiano meno elegante fu un allegro massacro, a modo suo esaltante: senza tema di esagerare, sapevamo che eravamo lì a fare la storia. Finalmente ogni diocesi avrebbe avuto indicazioni chiare; avrebbe costituito l’Ufficio comunicazioni sociali, se già non lo aveva; sarebbe stato evidente a tutti che la comunicazione non era uno sfizio ma uno dei cuori della pastorale.

Se un impegno particolare misi nella stesura del documento, magari con qualche chirurgica aggiustatina personale, fu nel sesto capitolo, quello che fondava la nuova figura pastorale degli animatori della comunicazione e della cultura. Doveva essere chiaro che il documento metteva in movimento la comunità ecclesiale intera, a cominciare dalle parrocchie... A che punto siamo? Ancora lontani dall’ultimo miglio, temo. E i giorni formidabili di Vallombrosa sono così lontani, eppure vicinissimi.

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