VIRTÙ
ALESSANDRA SMERILLI
Come mai fino a qualche anno fa in Italia si fumava nei luoghi pubblici e ora non solo è vietato, ma è diventato normale rispettare questa norma? Perché l’obbligo delle cinture di sicurezza in auto viene sempre più rispettato e sta diventando normale allacciarle anche sui sedili posteriori? Basta una legge per cambiare i comportamenti sociali? Una persona che da anni si sta occupando di questi temi è Cristina Bicchieri, una studiosa italiana molto conosciuta a livello mondiale. Insegna Sociologia ed etica comparata all’University of Pennsylvania ed è consulente per l’Unicef, la Banca Mondiale e la Fondaizone Gates. Studia i comportamenti delle persone per quanto riguarda l’equità, la fiducia e la cooperazione, e come le aspettative empiriche e normative influenzano tali comportamenti. Si occupa anche di studiare l’evoluzione delle norme sociali, individuando quali strategie aiutano a farne sviluppare di positive per la società. Non tutti i comportamenti collettivi possono essere considerati una norma sociale. Essa è caratterizzata da tre condizioni principali: è necessario che sia conosciuta dalla popolazione, che la maggioranza segua la regola perché si aspetta che anche gli altri lo facciano e che questa maggioranza si aspetti che chi la segue sia anche disposto a punire chi non lo fa.
Da qualche anno gira il mondo aiutando Ong e governi a studiare come far evolvere in positivo alcune norme sociali rispetto a pratiche che possono essere dannose per la collettività o che violano i diritti umani, come per esempio le mutilazioni genitali femminili. Ho conosciuto Cristina Bicchieri a Philadelphia nel suo dipartimento rimanendo incuriosita dal suo lavoro.
Da studiosa affermata cosa l’ha spinta a iniziare il lavoro applicato?
«È successo per caso. Un gruppo di persone all’Unicef ha letto il mio libro The grammar of society: the nature and dynamics of social norms( Cambridge University Press, 2006), e ha intuito che le norme sociali e il modo in cui le trattavo poteva essere interessante per il loro lavoro, perché né l’informazione, né gli incentivi economici erano sufficienti per far cambiare comportamenti collettivi dannosi. Spesso, infatti, il tipico intervento era disseminare informazione (per esempio sull’uso dei preservativi contro l’Hiv) o dare incentivi, ma spesso accade che la gente per un breve periodo di tempo osservi i comportamenti incentivati, poi l’incentivo finisce, e la maggior parte torna alle abitudini precedenti. All’Unicef cercavano quindi una strada alternativa e mi hanno invitata a New York a tenere una lezione, che doveva essere di un’ora ed è durata mezza giornata. Alla lezione ha partecipato chi lavora sul campo e mi sono interessata ai problemi di questi esperti. Erano presenti molti responsabili di Ong finanziate dall’Unicef. Da lì è iniziata una serie di consulenze e periodi di formazione, fatti come University of Pennsylvania e Unicef, per un periodo di 6 anni. Ma ancora non pensavo di fare applicazioni pratiche: semplicemente insegna- vo la teoria delle norme sociali. Chiedevo ai partecipanti di presentare dei casi che poi avremmo discusso. Da lì ho sviluppato tutta la mia teoria delle misure, ho sviluppato cioè misure specifiche per valutare le norme sociali sul campo. Innanzitutto per capire se una pratica collettiva è una norma sociale oppure no. In secondo luogo, se lo è, quali sono le condizioni migliori per riuscire a cambiarla, nel caso sia dannosa».
Le sue ultime ricerche riguardano l’evoluzione delle norme sociali, cosa sta scoprendo a riguardo?
«Mi sto occupando del come far emergere una norma sociale. Faccio un esempio: uno dei problemi più pressanti in alcune regioni è la defecazione all’aperto. Questo è un problema di scelta collettiva. Questa pratica crea effetti negativi, perché produce inquinamento ambientale e diffonde malattie. Abbiamo scoperto che il segreto di alcuni interventi di successo è dare vita a una norma sociale: le persone cioè capiscono e decidono collettivamente di cambiare comportamento e di costruire (e usare) le latrine. In questo caso però si sono accorti (e sto par- lando di villaggi) che c’era un problema di
free-riding. C’era cioè un incentivo a trasgredire la norma se gli altri vi si conformavano: se tutti utilizzano le latrine, io posso anche non farlo, tanto se sono solo io non capita nulla… Ma se tutti iniziano a pensarla così, si torna indietro. È un dilemma sociale, che le persone dei villaggi, nella loro semplicità, hanno capito perfettamente. E in quelle comunità dove hanno inserito controlli per le trasgressioni, c’è stato un cambiamento duraturo e sostenibile. L’emergere di una norma in questo caso è legato non solo al prendere atto che si creano effetti esterni negativi, ma anche a una decisione collettiva di creare un sistema di monitoraggio e punizione. In questo caso, controlli e punizione erano percepiti come legittimi, perché decisi 'dal basso'. Va notato che si possono prevedere anche premi per comportamenti virtuosi, in genere per interi villaggi».
C’è spazio per far evolvere norme sociali anche in Paesi avanzati? Prendiamo un caso italiano quali suggerimenti avrebbe circa l’evasione fiscale?
«Si può certamente. Bisogna però fare attenzione al messaggio che si trasmette che solitamente è controproducente. Quando si insiste troppo sull’elevata percentuale di coloro che non pagano le tasse, non si crea incentivo a farle pagare. La reazione più comune è: «Se tutti si comportano male, perché dovrei comportarmi bene? E anche se lo facessi, il mio contributo sarebbe insignificante». Si potrebbe allora insistere sulle comunità virtuose, far vedere che dove non c’è evasione ci sono migliori servizi. Io insisterei su questo. Il contenuto del messaggio è molto importante: se si dà un messaggio che rafforza l’aspettativa empirica che la gente si comporta male, chiaramente questo induce a comportarsi come fanno tutti. Un altro messaggio controproducente è quello moraleggiante: insistere sul 'dovremmo' o su quale è la cosa giusta da fare trasmette l’idea che normalmente le persone non fanno la cosa giusta. E le campagne moralizzatrici sono in genere dei fallimenti. Un elemento importante è che l’esigenza di cambiare venga dal basso. Le leggi sono importanti, ma aiutano a cambiare i comportamenti quando si avvicinano alla percezione comune delle persone, non quando ne sono lontane. In quasi tutti i Paesi africani sono state introdotte leggi contro le mutilazioni genitali femminili, e alcune prevedono punizioni severe. Ma quando la legge è distante dalla norma sociale, non funziona, anzi, delegittima il governo. Ci sono studi interessanti che mostrano come le leggi migliori, e più efficaci, siano quelle più vicine alle norme sociali che cercano di cambiare, ma lo fanno a piccoli passi».
Il mercato da alcuni è visto come uno strumento di sfruttamento dei forti sui deboli, per altri è uno strumento di civilizzazione. Lei come la vede?
«L’idea della concorrenza è positiva, soprattutto per il consumatore. Però il mercato è anche altre cose: ci sono attività economiche che vanno regolate. Chi vuole limitare il ruolo dello Stato nel mercato si preoccupa di salvaguardare solo i diritti di chi produce, mentre chi sostiene un intervento più ampio si preoccupa anche di diritti come lavoro, salute, educazione. Su questi temi ci sono ambiti in cui l’Europa fa meglio, per esempio l’aver capito l’importanza di offrire eguali opportunità per tutti: qui negli Stati Uniti se ne parla tanto, ma nella pratica non accade. Io vivo in una zona dove le scuole pubbliche sono buone e le tasse altissime. Le nostre tasse locali finanziano la buona scuola pubblica. Chi non può permettersi un posto dove le tasse sono alte, non potrà avere neanche buone scuole. Quindi non ci sono pari opportunità. In Europa invece in linea di principio ci sono. Se un ragazzo è meritevole può avere una buona educazione senza sostenere alti costi. La stessa cosa vale per il diritto alla salute. Qui non avviene, non c’è un servizio sanitario nazionale. In America, però, c’è più vantaggio per le attività economiche. C’è poca burocrazia. Tutto si fa in modo facile. Sono due facce di una stessa medaglia. Quello che io mi domando è: la medaglia deve essere per forza così? Non è possibile pensare a un sistema dove pari opportunità ed efficienza possano stare insieme?
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Dialoghi
Non servono incentivi e campagne moralizzatrici Le abitudini sociali si cambiano dal basso mostrando in modo credibile cosa nasce di buono dal comportamento positivo L’economista Smerilli dialoga con la sociologa Bicchieri



A sinistra, Cristina Bicchieri, docente all’University of Pennsylvania; a destra, suor Alessandra Smerilli, docente alla Pontificia facoltà di Scienze dell’educazione “Auxilium”