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In fuga da Erdogan: anche i turchi sulla rotta balcanica

GILBERTO MASTROMATTEO

Il reportage

FYLAKIO (GRECIA)

«Turkce! Sono turco. Sono arrivato stanotte attraversando il fiume Evros». Mehmet sventola il suo passaporto sotto il reticolato del centro di detenzione di Fylakio, a pochi chilometri dal confine tra Turchia e Grecia. È stato trovato sulla sponda europea del fiume. Camminava in cerca di aiuto, assieme ad altri 35 migranti provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan e dal Pakistan. Sul volto porta i segni di una lunga nottata insonne.

«Facevo l’insegnante a Istanbul – racconta mentre attende il suo turno nel centro di identificazione della cittadina greca –, il regime di Recep Tayyp Erdogan mi ha preso di mira. Sospettavano fossi un seguace di Fetullah Gulen, forse un golpista. In realtà sono solo una persona di idee progressiste. Le minacce nei confronti miei e della mia famiglia erano diventate insostenibili. Molti miei colleghi e amici sono finiti in carcere mesi fa, sulla base di nulla. Non potevo più rimanere in Turchia. Ho pagato uno smuggler (trafficante, ndr) e sono riparato in Grecia».

La tendenza è ormai comprovata dai vari attori istituzionali sul campo, sia in Grecia che in Bulgaria. È in aumento il numero di coloro che varcano il fiume Evros, così come i 12 chilometri di rete metallica innalzata alla fine del 2012 per prevenirne l’ingresso. Dalla primavera in avanti gli arrivi via terra sono triplicati, superando quelli via mare, sulle isole di Lesbo, Samo, Kos e Rodi. Non succedeva da almeno quattro anni. I migranti giungono al ritmo di oltre un centinaio al giorno. Sono siriani e afghani in massima parte. Ma tra di essi si registra un numero sempre maggiore di cittadini turchi.

«Il dato è palese – conferma Margaritis Petritzikis, avvocato dell’Acnur che opera all’interno del centro di identificazione di Fylakio – ; fuggono per motivi politici e arrivano qui ormai ogni giorno. Hanno storie che non possiamo divulgare, per il rischio di rappresaglie immediate sulle famiglie ». Mehmet è scappato assieme a suo fratello Hasan, che sul Bosforo faceva l’impiegato in una banca. Ironia della sorte, hanno toccato il suolo greco il giorno stesso delle elezioni presidenziali anticipate, che hanno segnato la riconferma di Erdogan a capo dello Stato. «Una messa in scena – la definisce Hasan –; la verità è che in Turchia si vive sotto dittatura. E chi manifesta un’opinione diversa da quella dell’Akp corre seri pericoli».

In questura ad Orestiada, appena al di qua del confine, la situazione è nota da settimane. «Gli arrivi di cittadini turchi sono una novità – osserva Paschalis Siritoudis, capo del dipartimento di Polizia nella cittadina frontaliera – ma sono ancora una minoranza rispetto al numero complessivo. La maggior parte di coloro che attraversano il confine vengono dalla Siria e dall’Afghanistan. I turchi sono un 10%, ma il dato è in aumento. Nel 2017 ci sono stati circa 4 mila ingressi complessivi nella Tracia settentrionale. Quest’anno sono già 3 mila».

Ad Alessandropoli, dove l’Evros si getta nel’Egeo, il dottor Pavlos Pavlidis, medico legale dell’ospedale cittadino, tiene la contabilità di coloro che nel fiume annegano tentando di raggiungere l’Europa. «Lo scorso anno sono stati 8. Quest’anno siamo già a 15» spiega, mentre lo raggiunge una chiamata della Polizia. Un altro cadavere, rinvenuto sul delta del fiume. «Faccio questo mestiere dal 2000 – spiega Pavlidis, aprendo la cella frigorifera ormai quasi satura del nosocomio – e per la prima volta quest’anno i numeri sembrano ritornare a quelli del 2012, quando eravamo giunti a contare 50 morti».

Per identificare i morti, Pavlidis ha a disposizione solo la prova del Dna e qualche effetto personale. Banconote, indumenti, braccia-letti, telefoni. I residuati di una tragedia senza fine. Della nuova componente turca, nel flusso migratorio verso la Grecia, è conscio anche lui: «In questi sacchi potrebbero esserci dei cittadini turchi – dice – ma, finché non avremo modo di confrontare il Dna con quello di un familiare, non potremo saperlo'.

Appena più a nord, in Bulgaria, la situazione è simile. «Anche qui giungono rifugiati turchi – commenta Ilyana Savova, direttrice del progetto Immigrazione presso l’Helsinki Committee di Sofia, la costola bulgara dell’organizzazione non governativa scandinava – scappano e cercano asilo in Europa. Ma la Bulgaria ha stretto una sorta di accordo tacito con il governo di Erdogan: i cittadini turchi vengono rispediti al mittente in maniera quasi immediata. Per questo preferiscono tentare la via della Grecia, che invece fornisce accoglienza».

Sempre meno le richieste d’asilo accolte dal governo di Sofia, specie se presentate da cittadini provenienti dall’Afghanistan. E sono ormai documentati casi quotidiani di respingimenti 'a caldo', lungo la frontiera con la Turchia. Una recinzione metallica è stata innalzata lo scorso anno lungo il confine con la Turchia. «E una nuova legge vieta persino l’accesso nell’area, tenendo lontani i media – ancora Ilyana Savova –. Il risultato è che nei primi sei mesi di quest’anno si registrano poco più di 600 arrivi. Erano decine di migliaia solo pochi anni fa».

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Una famiglia di profughi dentro il centro di detenzione di Fylakio, al confine tra Turchia e Grecia

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