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L’impresa sociale chiede strada

ANDREA DI TURI

MILANO

Da qualunque punto lo si valuti, il fenomeno delle imprese sociali in Italia ha ormai raggiunto dimensioni di assoluto rilievo: impatto economico e occupazionale, dinamicità imprenditoriale, servizi erogati, utenti raggiunti. Ma il suo potenziale è ancora superiore. Solo che per scaricarlo a terra ha bisogno che prenda corpo un vero e proprio ecosistema dell’imprenditoria sociale.

È questa la sfida per la riforma del Terzo settore avviata dal Governo, che comprende quella della legge sull’impresa sociale. Ed è questo il tema di fondo dell’ultimo Rapporto sull’Impresa sociale presentato da Iris Network, la rete nazionale degli istituti di ricerca sull’impresa sociale. Che ha inteso indicare alcune direzioni su cui sarebbe opportuno impostare prioritariamente l’azione, del legislatore ma non solo.

L’espressione che sintetizza uno dei messaggi forti del rapporto è «traguardare le colonne d’Ercole» dell’impresa sociale così come l’abbiamo conosciuta finora. Vale a dire esplorare il potenziale di imprenditoria sociale esistente fra quelle realtà che non sono considerate imprese sociali ma potrebbero esserlo, perché ne hanno le caratteristiche, per esempio, in termini di socialità del loro operato. È il cosiddetto non profit market oriented, che dalla produzione e vendita di beni e servizi sul mercato ricava almeno il 50% delle sue fonti di sostentamento. Escluse le cooperative sociali (oltre 12.500) e le imprese sociali ex-lege (770 quelle iscritte nei registri speciali delle Camere di Commercio, 570 quelle con 'impresa sociale' nella ragione sociale), nel non profit market operano 82.231 organizzazioni, attive soprattutto (64%) nella cultura, sport e ricreazione. Occupano 440mila addetti e mobilitano più di 1,6 milioni di volontari.

Se si pensa che la sola cooperazione sociale ha un valore della produzione di 10,1 miliardi di euro ( 314 milioni di euro quello delle imprese sociali ex- legge 118/ 2005), beneficiando 5 milioni di persone, non è difficile immaginare di quanto si potrebbe moltiplicare l’impatto dell’economia sociale se anche solo una parte di questo bacino assumesse la forma dell’impresa sociale.

Come avviare questo processo? Predisponendo un impianto normativo adeguato e incentivante, certo. Ma soprattutto andan- do appunto al di là dei confini dell’impresa sociale com’è oggi, pensando cioè alla possibilità di sperimentare nuovi modelli non solo giuridici ma organizzativi, gestionali, di governance e di finanziamento. Contaminandosi con quelle forme organizzative che hanno già dimostrato nei fatti di saper innovare i processi di produzione del valore sociale, anche in settori diversi dai tradizionali (mobilità, energia, turismo, cultura), e al contempo di intercettare la domanda dei cittadini legata a nuovi bisogni: si parla allora di incubatori, co-working e start-up, di economia collaborativa, di imprese coesive e comuni-tarie, di organizzazioni ibride.

Senza perdere l’identità, è a queste nuove frontiere che l’impresa sociale del futuro deve guardare se vuole pensare davvero in grande. E diventare ancor più di oggi un asse portante di un modello di sviluppo sostenibile per il Paese.

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